Leggi ecclesiastiche
Leggi ecclesiastiche L. 7-7-1866, n. 3036; L. 15-8-1867, n. 3848; l. 13-3-1871, n. 214
Si definiscono in tal modo quelle leggi in materia ecclesiastica emanate unilateralmente dal Regno d’Italia per disciplinare i rapporti con la Chiesa, dall’Unità fino ai Patti lateranensi.
• (—) eversive
Con la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861 venne perseguita, nei confronti della Chiesa, una politica restrittiva che, già iniziata dal Parlamento Subalpino (Regno di Sardegna), incise soprattutto sugli enti e sui beni ecclesiastici.
In particolare:
— con la L. 3036/1866 fu negato il riconoscimento (e quindi la capacità patrimoniale) agli ordini, corporazioni e congregazioni religiose regolari nonché conservatori e ritiri i quali importassero vita comune ed avessero carattere ecclesiastico.
Il patrimonio di tali enti soppressi fu devoluto al demanio dello Stato, con l’obbligo di iscrivere, nel Gran libro del debito pubblico, una rendita del 5% a favore del neocostituito Fondo per il culto (che succedeva, in ogni rapporto, alla vecchia Cassa ecclesiastica dello Stato sardo).
Nel contempo, con questa stessa legge, veniva sancita l’incapacità per ogni ente morale ecclesiastico, di possedere beni immobili;
— con la L. 3848/1867 la soppressione, già disposta con la L. 3036/1866 per gli enti regolari, fu estesa, con modalità analoghe, a tutti gli enti secolari che lo Stato, con propria autonoma valutazione, riteneva superflui per il soddisfacimento dei bisogni religiosi della collettività o dannosi agli interessi statali.
Esclusi dalla soppressione e dalla conseguente spoliazione dei beni furono le parrocchie, gli ordinariati, i canonicati, le chiese cattedrali, i seminari, le fabbricerie.
• (—) delle guarentigie
Nel vano tentativo di risolvere la questione romana, il 13 marzo 1871 veniva emanata la L. 214/1871, che fu detta delle guarentigie, in quanto garantiva rendite, immunità e privilegi al Sommo Pontefice; in effetti con questa legge lo Stato cercò anche di dare una regolamentazione ai rapporti tra lo Stato e la Chiesa.
Il provvedimento si articolava in due titoli ben distinti:
— il primo, prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede, con cui il legislatore tentava di garantire una certa indipendenza al Pontefice attraverso:
— la corresponsione di una rendita annua;
— la concessione dei palazzi apostolici, Vaticani e Lateranensi;
— il divieto alla polizia di introdursi nei palazzi vaticani;
— il riconoscimento di prerogative ed immunità ai diplomatici esteri;
— il secondo, relazioni dello Stato con la Chiesa, invece, riguardava appunto i rapporti fra Stato e Chiesa. Il legislatore, in particolare:
— abolì il giuramento dei Vescovi;
— abolì il diritto di nomina o proposta regia;
— abolì l’appello per l’abuso o recursus ad principem.
Con questa legge gli statisti del Regno ritenevano di avere risolto la questione romana, ma la Santa Sede non fu d’accordo perché a suo parere la legge non presentava garanzie di stabilità, soprattutto perché, in quanto legge interna, poteva essere in ogni momento abrogata da una successiva e meno favorevole legge ordinaria dello Stato (Enciclica Ubi nos del 15-5-1871).
Lo Stato cercò di ovviare alle critiche, dichiarando la legge delle guarentigie legge fondamentale dello Stato; questa dichiarazione, però, non si rivelò adatta a risolvere il problema perché la normativa rimaneva pur sempre in balìa della sola volontà del legislatore italiano.
L’impasse dei rapporti fra Chiesa e Stato nel nostro Paese fu superato solo nel 1929 con il Trattato (internazionale) del Laterano stipulato da Stato e Chiesa in posizione paritaria [vedi Concordato ecclesiastico].
Si definiscono in tal modo quelle leggi in materia ecclesiastica emanate unilateralmente dal Regno d’Italia per disciplinare i rapporti con la Chiesa, dall’Unità fino ai Patti lateranensi.
• (—) eversive
Con la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861 venne perseguita, nei confronti della Chiesa, una politica restrittiva che, già iniziata dal Parlamento Subalpino (Regno di Sardegna), incise soprattutto sugli enti e sui beni ecclesiastici.
In particolare:
— con la L. 3036/1866 fu negato il riconoscimento (e quindi la capacità patrimoniale) agli ordini, corporazioni e congregazioni religiose regolari nonché conservatori e ritiri i quali importassero vita comune ed avessero carattere ecclesiastico.
Il patrimonio di tali enti soppressi fu devoluto al demanio dello Stato, con l’obbligo di iscrivere, nel Gran libro del debito pubblico, una rendita del 5% a favore del neocostituito Fondo per il culto (che succedeva, in ogni rapporto, alla vecchia Cassa ecclesiastica dello Stato sardo).
Nel contempo, con questa stessa legge, veniva sancita l’incapacità per ogni ente morale ecclesiastico, di possedere beni immobili;
— con la L. 3848/1867 la soppressione, già disposta con la L. 3036/1866 per gli enti regolari, fu estesa, con modalità analoghe, a tutti gli enti secolari che lo Stato, con propria autonoma valutazione, riteneva superflui per il soddisfacimento dei bisogni religiosi della collettività o dannosi agli interessi statali.
Esclusi dalla soppressione e dalla conseguente spoliazione dei beni furono le parrocchie, gli ordinariati, i canonicati, le chiese cattedrali, i seminari, le fabbricerie.
• (—) delle guarentigie
Nel vano tentativo di risolvere la questione romana, il 13 marzo 1871 veniva emanata la L. 214/1871, che fu detta delle guarentigie, in quanto garantiva rendite, immunità e privilegi al Sommo Pontefice; in effetti con questa legge lo Stato cercò anche di dare una regolamentazione ai rapporti tra lo Stato e la Chiesa.
Il provvedimento si articolava in due titoli ben distinti:
— il primo, prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede, con cui il legislatore tentava di garantire una certa indipendenza al Pontefice attraverso:
— la corresponsione di una rendita annua;
— la concessione dei palazzi apostolici, Vaticani e Lateranensi;
— il divieto alla polizia di introdursi nei palazzi vaticani;
— il riconoscimento di prerogative ed immunità ai diplomatici esteri;
— il secondo, relazioni dello Stato con la Chiesa, invece, riguardava appunto i rapporti fra Stato e Chiesa. Il legislatore, in particolare:
— abolì il giuramento dei Vescovi;
— abolì il diritto di nomina o proposta regia;
— abolì l’appello per l’abuso o recursus ad principem.
Con questa legge gli statisti del Regno ritenevano di avere risolto la questione romana, ma la Santa Sede non fu d’accordo perché a suo parere la legge non presentava garanzie di stabilità, soprattutto perché, in quanto legge interna, poteva essere in ogni momento abrogata da una successiva e meno favorevole legge ordinaria dello Stato (Enciclica Ubi nos del 15-5-1871).
Lo Stato cercò di ovviare alle critiche, dichiarando la legge delle guarentigie legge fondamentale dello Stato; questa dichiarazione, però, non si rivelò adatta a risolvere il problema perché la normativa rimaneva pur sempre in balìa della sola volontà del legislatore italiano.
L’impasse dei rapporti fra Chiesa e Stato nel nostro Paese fu superato solo nel 1929 con il Trattato (internazionale) del Laterano stipulato da Stato e Chiesa in posizione paritaria [vedi Concordato ecclesiastico].