Istruzione
Istruzione
Da un punto di vista economico, l'istruzione è stata oggetto di analisi innanzi tutto alla luce delle teorie sul capitale umano (v.). Sotto questo aspetto, le spese per l'istruzione possono essere considerate a tutti gli effetti degli investimenti poiché accrescerebbero la produttività del lavoro e, quindi garantirebbero un maggior flusso di redditi futuri.
Un altro filone di ricerca, invece, ha appuntato la propria attenzione sulle motivazioni dell'intervento pubblico nell'istruzione. In questo caso, la necessità di un'istruzione finanziata con risorse pubbliche viene giustificata principalmente sulla base di tre argomentazioni, tutte riconducibili al fallimento del mercato (v.):
— l'istruzione genera esternalità (v.) positive che il mercato, inevitabilmente, tenderebbe a sottovalutare o non considerare affatto;
— l'istruzione è un bene essenziale per la collettività, la cui distribuzione fra i soggetti economici non può essere in qualche modo controllata dalla Stato (cd. tesi dell'egualitarismo specifico);
— l'istruzione, infine, consente in genere l'accesso ad occupazioni meglio retribuite. Come dimostrato dalla teoria del capitale umano (v.), essa è assimilabile ad un investimento e, come tutti gli investimenti, richiede tempo e risorse prima di dare i suoi frutti. Certo, alcuni studenti possono ricorrere alla famiglia, ma non sempre questa è in grado o è disposta a investire nell'istruzione dei figli. In questo caso, se fosse possibile chiedere un prestito ad una banca, dando in garanzia il proprio reddito futuro, non ci sarebbero problemi e tutti potrebbero avere accesso all'istruzione se lo desiderassero. Evidentemente, non è così, perché prestiti del genere suddetto non sono possibili; le banche non sono disposte a fornirli, poiché temono di non ottenere una restituzione in tempi e modi adeguati. In un certo senso, il mercato registra un fallimento, perché non esiste un prezzo a cui quel particolare tipo di prestiti possa essere offerto. Quindi, se non ci fosse l'intervento pubblico, sotto forma di istruzione gratuita o semi-gratuita oppure sotto forma di prestiti pubblici agli studenti, molti giovani potenzialmente capaci non avrebbero accesso all'istruzione.
Come ripartire le spese per
l'istruzione pubblica?
Uno dei problemi essenziali da risolvere per strutturare il programma di spesa per l'istruzione è stabilire come ripartire la spesa:
a. fra gli alunni;
b. fra le zone geografiche.
Evidentemente, in entrambi i casi la decisione dipende dagli obiettivi che ci si pone, da quali sono gli effetti della spesa, e dalla misura in cui obiettivi desiderati ed effetti concreti coincidono.
Consideriamo dapprima il problema della suddivisione per alunno, per poi trattare quello della suddivisione per zona.
La ripartizione della spesa fra studenti deve risolvere sostanzialmente il seguente problema: è meglio destinare maggiori risorse per le attività di approfondimento nelle scuole superiori (di cui beneficiano solo i più bravi fra coloro che sono iscritti) oppure per le scuole dell'obbligo (cui accedono tutti) o ai corsi di recupero e agli insegnanti di sostegno (destinati ai più deboli)? La risposta dipende molto dai fini che ci si prefigge: se si concentra l'attività selettivamente sui più bravi, si aumenterà la produttività totale del sistema economico (studenti bravi vuol dire, in prospettiva, lavoratori molto produttivi, sia sul piano qualitativo che su quello quantitativo); invece, se si distribuisce l'impegno su tutti, si avranno effetti positivi sul piano dell'equità. Non è facile dire a priori quale dei due obiettivi (produttività od equità) sia il più importante; la decisione, in genere, dipende dalle scelte della collettività.
La questione della ripartizione per zone è molto complessa, e si intreccia con il dibattito se sia opportuno o meno conferire autonomia alle scuole (tema questo assai discusso in Italia negli anni '90).
Alcuni economisti, rifacendosi alle conclusioni cui sono arrivati gli studi sulle giurisdizioni locali (v.), hanno proposto di attribuire alle istituzioni scolastiche la facoltà di gestire il personale (docente e non) ed i fondi destinati alla didattica ed all'amministrazione; inoltre, le scuole dovrebbero poter organizzare propri piani di studio (sulla base di standard nazionali) e magari fornire servizi aggiuntivi, su domanda e a finanziamento delle famiglie (ad esempio, l'insegnamento di una lingua straniera in più). Da una parte, l'autonomia consentirebbe maggiore flessibilità e riconoscerebbe le esigenze specifiche delle varie zone geografiche: non è necessariamente vero che lo stesso piano di studi sia utile agli studenti di Palermo quanto a quelli di Aosta. Dall'altra, essa pone alcuni delicati problemi di equità: la condizioni scolastiche diverrebbero ancora più diseguali? Come dovremmo comportarci di fronte alle diverse scelte delle comunità?
Quest'ultimo, in particolare è un problema non da poco: poniamo ad esempio che, in conseguenza dell'autonomia, le comunità locali composte prevalentemente da anziani esprimano un impegno per l'istruzione inferiore a quello delle comunità in cui sono più numerose persone con figli in età scolare. Come deve comportarsi lo Stato in questo caso?
Ancora una volta, la risposta non è affatto ovvia.
Da un punto di vista economico, l'istruzione è stata oggetto di analisi innanzi tutto alla luce delle teorie sul capitale umano (v.). Sotto questo aspetto, le spese per l'istruzione possono essere considerate a tutti gli effetti degli investimenti poiché accrescerebbero la produttività del lavoro e, quindi garantirebbero un maggior flusso di redditi futuri.
Un altro filone di ricerca, invece, ha appuntato la propria attenzione sulle motivazioni dell'intervento pubblico nell'istruzione. In questo caso, la necessità di un'istruzione finanziata con risorse pubbliche viene giustificata principalmente sulla base di tre argomentazioni, tutte riconducibili al fallimento del mercato (v.):
— l'istruzione genera esternalità (v.) positive che il mercato, inevitabilmente, tenderebbe a sottovalutare o non considerare affatto;
— l'istruzione è un bene essenziale per la collettività, la cui distribuzione fra i soggetti economici non può essere in qualche modo controllata dalla Stato (cd. tesi dell'egualitarismo specifico);
— l'istruzione, infine, consente in genere l'accesso ad occupazioni meglio retribuite. Come dimostrato dalla teoria del capitale umano (v.), essa è assimilabile ad un investimento e, come tutti gli investimenti, richiede tempo e risorse prima di dare i suoi frutti. Certo, alcuni studenti possono ricorrere alla famiglia, ma non sempre questa è in grado o è disposta a investire nell'istruzione dei figli. In questo caso, se fosse possibile chiedere un prestito ad una banca, dando in garanzia il proprio reddito futuro, non ci sarebbero problemi e tutti potrebbero avere accesso all'istruzione se lo desiderassero. Evidentemente, non è così, perché prestiti del genere suddetto non sono possibili; le banche non sono disposte a fornirli, poiché temono di non ottenere una restituzione in tempi e modi adeguati. In un certo senso, il mercato registra un fallimento, perché non esiste un prezzo a cui quel particolare tipo di prestiti possa essere offerto. Quindi, se non ci fosse l'intervento pubblico, sotto forma di istruzione gratuita o semi-gratuita oppure sotto forma di prestiti pubblici agli studenti, molti giovani potenzialmente capaci non avrebbero accesso all'istruzione.
Come ripartire le spese per
l'istruzione pubblica?
Uno dei problemi essenziali da risolvere per strutturare il programma di spesa per l'istruzione è stabilire come ripartire la spesa:
a. fra gli alunni;
b. fra le zone geografiche.
Evidentemente, in entrambi i casi la decisione dipende dagli obiettivi che ci si pone, da quali sono gli effetti della spesa, e dalla misura in cui obiettivi desiderati ed effetti concreti coincidono.
Consideriamo dapprima il problema della suddivisione per alunno, per poi trattare quello della suddivisione per zona.
La ripartizione della spesa fra studenti deve risolvere sostanzialmente il seguente problema: è meglio destinare maggiori risorse per le attività di approfondimento nelle scuole superiori (di cui beneficiano solo i più bravi fra coloro che sono iscritti) oppure per le scuole dell'obbligo (cui accedono tutti) o ai corsi di recupero e agli insegnanti di sostegno (destinati ai più deboli)? La risposta dipende molto dai fini che ci si prefigge: se si concentra l'attività selettivamente sui più bravi, si aumenterà la produttività totale del sistema economico (studenti bravi vuol dire, in prospettiva, lavoratori molto produttivi, sia sul piano qualitativo che su quello quantitativo); invece, se si distribuisce l'impegno su tutti, si avranno effetti positivi sul piano dell'equità. Non è facile dire a priori quale dei due obiettivi (produttività od equità) sia il più importante; la decisione, in genere, dipende dalle scelte della collettività.
La questione della ripartizione per zone è molto complessa, e si intreccia con il dibattito se sia opportuno o meno conferire autonomia alle scuole (tema questo assai discusso in Italia negli anni '90).
Alcuni economisti, rifacendosi alle conclusioni cui sono arrivati gli studi sulle giurisdizioni locali (v.), hanno proposto di attribuire alle istituzioni scolastiche la facoltà di gestire il personale (docente e non) ed i fondi destinati alla didattica ed all'amministrazione; inoltre, le scuole dovrebbero poter organizzare propri piani di studio (sulla base di standard nazionali) e magari fornire servizi aggiuntivi, su domanda e a finanziamento delle famiglie (ad esempio, l'insegnamento di una lingua straniera in più). Da una parte, l'autonomia consentirebbe maggiore flessibilità e riconoscerebbe le esigenze specifiche delle varie zone geografiche: non è necessariamente vero che lo stesso piano di studi sia utile agli studenti di Palermo quanto a quelli di Aosta. Dall'altra, essa pone alcuni delicati problemi di equità: la condizioni scolastiche diverrebbero ancora più diseguali? Come dovremmo comportarci di fronte alle diverse scelte delle comunità?
Quest'ultimo, in particolare è un problema non da poco: poniamo ad esempio che, in conseguenza dell'autonomia, le comunità locali composte prevalentemente da anziani esprimano un impegno per l'istruzione inferiore a quello delle comunità in cui sono più numerose persone con figli in età scolare. Come deve comportarsi lo Stato in questo caso?
Ancora una volta, la risposta non è affatto ovvia.