Imperialismo economico
Imperialismo economico
Tendenza di uno Stato (o di gruppi politici ed economici al suo interno), a perseguire come obiettivo principale la dominazione (politica o economica) su un'altra regione o Stato.
La teoria dell'imperialismo economico ha preso le mosse dal lavoro dello storico inglese J. Hobson (1902) per poi essere recuperata, in seguito, da vari esponenti marxisti tra cui spiccano R. Hilferding (v.), R. Luxemburg e Lenin.
Per Hilferding la presenza, nei paesi avanzati, di concentrazioni capitalistiche tende, progressivamente, ad eliminare ogni forma di concorrenza interna attraverso l'estromissione di potenziali concorrenti. Le imprese dominanti, in tal modo, possono agire sul mercato alzando i prezzi e riducendo le quantità prodotte onde ottenere il più elevato profitto possibile.
Una volta eliminata ogni forma di concorrenza interna per le imprese si pone l'esigenza di contrastare la possibile concorrenza straniera che potrebbe immettere sul mercato locale beni a prezzi inferiori rispetto a quelli praticati (artificiosamente alti). Ciò avviene attraverso l'introduzione di dazi protettivi i quali producono, tuttavia, l'effetto indesiderato di restringere il mercato di sbocco dei propri prodotti, nell'ipotesi (più che plausibile) che tutti gli Stati adottino la stessa politica. Si impone, così, la necessità di cercare nuovi spazi per l'esportazione dei propri prodotti, cosa che si realizza, in definitiva, attraverso una politica di espansione coloniale.
R. Luxemburg identifica le ragioni dell'imperialismo economico nelle contraddizioni tipiche di un sistema capitalistico caratterizzato dalla necessità di trovare mercati di sbocco per i propri prodotti in mancanza di un'adeguata capacità di assorbimento da parte dei mercati interni. Il capitalismo tende inevitabilmente a comprimere i salari dei lavoratori onde assicurare maggiori profitti all'imprenditore: se, tuttavia, la capacità di spesa dei lavoratori è limitata dal basso livello dei salari, si rende necessario trovare nuovi mercati di sbocco in grado di assorbire l'eccesso di capacità produttiva del sistema economico. Nasce, quindi, l'esigenza di una politica imperialistica.
Lenin, riprendendo la tesi già sviluppata da Hilferding, parte dal presupposto che il capitalismo maturo sia caratterizzato dal prevalere, per la formazione di concentrazioni monopolistiche, di enormi capitali che non vengono investiti a causa della caduta del saggio di profitto. Questa situazione spinge a cercare all'esterno sia i mercati di sbocco in grado di remunerare adeguatamente il capitale investito, sia le fonti di approvvigionamento per materie prime a basso costo.
Lenin opera, poi, una differenziazione tra imperialismo economico e colonialismo. I due termini, infatti, non vanno confusi tra loro poiché il dominio militare su una specifica area non presuppone imperialismo economico. Quest'ultimo può manifestarsi anche in via indiretta attraverso i vincoli di dipendenza che spesso legano nazioni sviluppate e paesi sottosviluppati: dipendenza tecnologica, controllo da parte di istituzioni finanziarie dei capitali, sfruttamento della manodopera locale, controllo a livello internazionale dei prezzi dei prodotti agricoli che spesso costituiscono l'unica fonte di esportazione di un paese ed ingerenza nelle vicende politiche interne.
Alle tesi marxiste si contrappone, in particolare, quella di J. Schumpeter (v.), il quale nel suo libro Sociologia dell'imperialismo (1919), rifiuta l'identificazione marxista di imperialismo economico e capitalismo, essendo quest'ultimo orientato a garantire la più efficace allocazione delle risorse produttive attraverso il libero gioco della domanda e dell'offerta. Le regole del capitalismo, secondo l'economista austriaco, non sono fondate su un principio di dominazione politica e militare ma rispondono, semplicemente, ad esigenze di efficienza produttiva, ponendo tutti i contraenti sullo stesso livello. Il fenomeno dell'imperialismo è, invece, da ricondurre alla sopravvivenza di retaggi storici e politici di una società capitalisticamente poco avanzata in cui dominavano classi sociali (militari, aristocratici ecc.) interessate ad una politica di occupazione militare quale strumento per la riaffermazione del proprio ruolo e della propria supremazia politica. Supremazia che, al contrario viene, costantemente posta in discussione dall'affermarsi di una cultura, quella capitalistica, che non prevede l'uso della forza per far valere i propri ideali.
Tendenza di uno Stato (o di gruppi politici ed economici al suo interno), a perseguire come obiettivo principale la dominazione (politica o economica) su un'altra regione o Stato.
La teoria dell'imperialismo economico ha preso le mosse dal lavoro dello storico inglese J. Hobson (1902) per poi essere recuperata, in seguito, da vari esponenti marxisti tra cui spiccano R. Hilferding (v.), R. Luxemburg e Lenin.
Per Hilferding la presenza, nei paesi avanzati, di concentrazioni capitalistiche tende, progressivamente, ad eliminare ogni forma di concorrenza interna attraverso l'estromissione di potenziali concorrenti. Le imprese dominanti, in tal modo, possono agire sul mercato alzando i prezzi e riducendo le quantità prodotte onde ottenere il più elevato profitto possibile.
Una volta eliminata ogni forma di concorrenza interna per le imprese si pone l'esigenza di contrastare la possibile concorrenza straniera che potrebbe immettere sul mercato locale beni a prezzi inferiori rispetto a quelli praticati (artificiosamente alti). Ciò avviene attraverso l'introduzione di dazi protettivi i quali producono, tuttavia, l'effetto indesiderato di restringere il mercato di sbocco dei propri prodotti, nell'ipotesi (più che plausibile) che tutti gli Stati adottino la stessa politica. Si impone, così, la necessità di cercare nuovi spazi per l'esportazione dei propri prodotti, cosa che si realizza, in definitiva, attraverso una politica di espansione coloniale.
R. Luxemburg identifica le ragioni dell'imperialismo economico nelle contraddizioni tipiche di un sistema capitalistico caratterizzato dalla necessità di trovare mercati di sbocco per i propri prodotti in mancanza di un'adeguata capacità di assorbimento da parte dei mercati interni. Il capitalismo tende inevitabilmente a comprimere i salari dei lavoratori onde assicurare maggiori profitti all'imprenditore: se, tuttavia, la capacità di spesa dei lavoratori è limitata dal basso livello dei salari, si rende necessario trovare nuovi mercati di sbocco in grado di assorbire l'eccesso di capacità produttiva del sistema economico. Nasce, quindi, l'esigenza di una politica imperialistica.
Lenin, riprendendo la tesi già sviluppata da Hilferding, parte dal presupposto che il capitalismo maturo sia caratterizzato dal prevalere, per la formazione di concentrazioni monopolistiche, di enormi capitali che non vengono investiti a causa della caduta del saggio di profitto. Questa situazione spinge a cercare all'esterno sia i mercati di sbocco in grado di remunerare adeguatamente il capitale investito, sia le fonti di approvvigionamento per materie prime a basso costo.
Lenin opera, poi, una differenziazione tra imperialismo economico e colonialismo. I due termini, infatti, non vanno confusi tra loro poiché il dominio militare su una specifica area non presuppone imperialismo economico. Quest'ultimo può manifestarsi anche in via indiretta attraverso i vincoli di dipendenza che spesso legano nazioni sviluppate e paesi sottosviluppati: dipendenza tecnologica, controllo da parte di istituzioni finanziarie dei capitali, sfruttamento della manodopera locale, controllo a livello internazionale dei prezzi dei prodotti agricoli che spesso costituiscono l'unica fonte di esportazione di un paese ed ingerenza nelle vicende politiche interne.
Alle tesi marxiste si contrappone, in particolare, quella di J. Schumpeter (v.), il quale nel suo libro Sociologia dell'imperialismo (1919), rifiuta l'identificazione marxista di imperialismo economico e capitalismo, essendo quest'ultimo orientato a garantire la più efficace allocazione delle risorse produttive attraverso il libero gioco della domanda e dell'offerta. Le regole del capitalismo, secondo l'economista austriaco, non sono fondate su un principio di dominazione politica e militare ma rispondono, semplicemente, ad esigenze di efficienza produttiva, ponendo tutti i contraenti sullo stesso livello. Il fenomeno dell'imperialismo è, invece, da ricondurre alla sopravvivenza di retaggi storici e politici di una società capitalisticamente poco avanzata in cui dominavano classi sociali (militari, aristocratici ecc.) interessate ad una politica di occupazione militare quale strumento per la riaffermazione del proprio ruolo e della propria supremazia politica. Supremazia che, al contrario viene, costantemente posta in discussione dall'affermarsi di una cultura, quella capitalistica, che non prevede l'uso della forza per far valere i propri ideali.