Distribuzione funzionale

Distribuzione funzionale

Espressione riferita alla ripartizione del reddito nazionale (v.) fra i fattori che partecipano al processo produttivo.
In particolare il reddito viene distribuito sotto forma di:
salari (v.), quando ad essere remunerato è il fattore produttivo lavoro;
rendite (v.), quando viene remunerato il proprietario del fattore produttivo terra;
profitti (v.), quando la retribuzione spetta all'imprenditore per le sue capacità organizzative;
interessi (v.), quando si remunera il fattore capitale per il contributo che fornisce al processo produttivo.
La distribuzione funzionale del reddito è stata oggetto di analisi sia da parte di economisti classici che neoclassici, anche se il loro approccio al problema è profondamente diverso.
Nell'analisi degli economisti classici, ed in particolare di Ricardo (v.) e Marx (v.), vi è una netta distinzione tra quella parte del reddito nazionale che deve essere utilizzata per reintegrare i fattori produttivi utilizzati nel processo produttivo precedente e ciò che, invece, costituisce un sovrappiù (v.): sarà proprio la distribuzione di quest'ultima grandezza a rappresentare uno dei nodi centrali del dibattito economico.
Per gli economisti classici, infatti, alla ripartizione del reddito nazionale concorrono tre diverse classi sociali (per questo motivo l'analisi classica della distribuzione del reddito viene anche definita distribuzione sociale del reddito): i lavoratori, i proprietari terrieri e gli imprenditori che vengono remunerati rispettivamente attraverso il salario, la rendita ed i profitti (nell'analisi classica quest'ultima categoria ricomprende anche gli interessi in quanto nella prima metà dell'Ottocento non era ben distinta la funzione dell'imprenditore da quella del capitalista ovvero tra colui che organizza i fattori della produzione e colui che fornisce i capitali per poter avviare il processo produttivo).
Poiché il salario è fissato al livello di sussistenza, la parte residua del reddito non distribuito serve a remunerare i proprietari terrieri, in quanto possessori del fattore produttivo terra, e gli imprenditori.
Per entrambi gli autori il salario era fissato al livello di sussistenza anche se i motivi che determinano questa ipotesi sono diversi. In particolare:
— per Ricardo tale livello è assicurato dall'operare della trappola malthusiana (v.). Secondo quest'ultima, infatti un maggior reddito dei lavoratori avrebbe determinato una crescita della popolazione che a sua volta, nel lungo periodo avrebbe determinato una maggiore offerta di lavoro e quindi una riduzione dei salari, che sarebbero ritornati al livello di sussistenza;
per Marx il salario è fissato al livello di sussistenza per motivi caratteristici del sistema capitalistico. Se l'offerta di lavoro è superiore alla sua domanda l'imprenditore può assumere operai ad un basso livello di salario (intorno al livello di sussistenza) e quindi assicurarsi un alto tasso di profitto. Gli alti profitti costituiscono un incentivo per l'imprenditore ad aumentare la capacità produttiva della propria azienda assumendo nuovi operai. Tuttavia, all'aumentare del numero di operai impiegati si creerà una riduzione dell'offerta di lavoro rispetto alla domanda per cui i lavoratori potranno richiedere salari più alti, riducendo il margine di profitto degli imprenditori. Questi ultimi, in presenza di una riduzione dei propri guadagni, tenderanno ad introdurre metodi di lavoro che danno un ruolo preponderante ai macchinari rispetto al lavoro, provocando un nuovo aumento della disoccupazione che riporterà il salario al livello di sussistenza.
Nell'analisi di Ricardo il vero conflitto nella distribuzione del reddito era rappresentato dalla ripartizione tra rendite e profitti; come egli sottolineò un aumento delle rendite riduce il profitto imprenditoriale, generando un conflitto nella distribuzione del sovrappiù. Nell'analisi di Marx, invece, la rendita scompare (o comunque non riveste quel ruolo preponderante che essa assumeva nell'analisi ricardiana) ed il vero conflitto distributivo consiste nella ripartizione del reddito tra salari e profitti, con tutte le implicazioni politiche e sociali che da tale analisi derivano.
Gli evidenti conflitti distributivi messi in luce dalla teoria marxiana, portarono gli economisti neoclassici (v.) ad impostare diversamente il problema della distribuzione del reddito, pur riallacciandosi alla teoria ricardiana della distribuzione ed in particolare al concetto di produttività marginale (v.) messo in evidenza dall'economista inglese. Tuttavia, mentre per Ricardo il concetto di produttività marginale era associato soltanto al fattore terra, i neoclassici l'estesero all'analisi di tutti gli altri fattori della produzione.
Secondo i neoclassici, infatti, poiché il prodotto è il risultato della combinazione di diversi fattori produttivi, il reddito sarà distribuito a ciascuno di essi nella misura del contributo apportato al processo produttivo in base, cioè, al valore della loro produttività marginale.
Attraverso la teoria della produttività marginale gli economisti neoclassici risolvono il problema del sovrappiù. Se infatti ogni fattore produttivo è remunerato secondo il contributo apportato al processo produttivo, saranno soddisfatti due principi fondamentali:
dell'efficienza, in quanto il reddito sarà effettivamente distribuito solo a fattori che hanno concorso alla produzione;
dell'equità, in quanto ad ognuno toccherà una remunerazione pari al contributo apportato.
La critica alla teoria neoclassica della distribuzione del reddito è stata arricchita soprattutto da Sraffa (v.) e sostenuta dai neoricardiani (v.). Le due idee cardini della loro critica sono:
— il capitale non può essere definito come qualcosa di omogeneo, in quanto è composto da beni molto diversi tra loro ciò rende difficile sottoporlo alla regola della produttività marginale;
— non è assolutamente provato che un aumento del fattore capitale (tenuti costanti gli altri fattori produttivi) ne riduce la produttività marginale e, di conseguenza, il tasso di remunerazione.
Se si suppone che diminuisca il profitto non si può semplicemente affermare che il valore dei beni capitali è diminuito poiché si determinerà una variazione di tutti i beni capitali.
In particolare:
— i beni prodotti con alta intensità di capitale subiranno una riduzione di prezzo;
— i beni prodotti con alta intensità di lavoro aumenteranno di valore.
Per questo motivo non è corretto affermare che, all'aumentare della dotazione di capitale, vi sarà una variazione nel valore del capitale stesso. Importanti i contributi al dibattito relativo alla distribuzione del reddito si devono, inoltre, a Kalecki (v.) e Kaldor (v.).
Il primo, abbandonando le ipotesi neoclassiche della piena mobilità dei fattori produttivi e l'idea che in regime di concorrenza perfetta (v.) i prezzi siano determinati da libero gioco della domanda e dell'offerta, pone in evidenza come la determinazione dei salari e dei profitti sia influenzata da altre variabili. In un moderno sistema economico il salario monetario è determinato dalla contrattazione collettiva sostenuta dai sindacati. La grandezza fondamentale non sono tuttavia i salari monetari, bensì quelli reali che sono dati dal rapporto tra il salario ed i prezzi.
Per Kalecki questi ultimi sono fissati dall'impresa prendendo in considerazione la media dei suoi costi ed i prezzi praticati dalle altre imprese che operano nel medesimo settore. È chiaro che quanto maggiore sarà il potere di mercato dell'impresa tanto più elevati saranno i prezzi che potrà imporre, determinando un aumento dei profitti ed una riduzione dei salari reali; si determinerà così una distribuzione del reddito tra salari e profitti che non risulta in alcun modo legata al concetto neoclassico di produttività marginale.
Nell'elaborazione dell'analisi kaldoriana, invece, si parte dalla constatazione che in una moderna economia capitalistica si opera in condizioni di pieno impiego (a causa delle politiche di sostegno all'occupazione attuate dai vari governi nazionali) per cui ogni aumento degli investimenti, non potendo generare un più alto volume produttivo, si ripercuoterà unicamente sui prezzi e quindi sui profitti dei capitalisti. In quest'ottica l'unica grandezza che è in grado di influenzare la distribuzione del reddito sono gli investimenti (attraverso gli effetti che essa determina sui prezzi); una volta determinati i prezzi (ed i profitti) il salario sarà considerato semplicemente come un reddito residuale.
È da notare che secondo questa teoria soltanto i capitalisti possono risparmiare una quota tanto elevata del loro reddito da incidere sensibilmente sul volume degli investimenti; le cause di tale affermazione sono ovvie se si tiene conto delle differenze che esistono tra il reddito percepito e quello utilizzato per consumi dai capitalisti e dalle somme che vengono periodicamente accantonate dalle imprese per investimenti futuri.