Cambridge controversy

Cambridge controversy

Dibattito che, negli anni Sessanta, ha opposto gli economisti della scuola di Cambridge (v.) in Inghilterra a quella del Massachusetts Istitute of Technology (MIT) di Cambridge negli Stati Uniti. La controversia vide schierati su opposti fronti economisti quali J. Robinson (v.) e Sraffa (v.), da una parte e, dall'altra, Samuelson (v.) e Solow (v.) e verteva essenzialmente sul problema della misurabilità del capitale (v.). Gli economisti di scuola inglese consideravano il capitale una grandezza eterogenea, e pertanto non misurabile. Se beni capitali diversi come un martello, un fabbricato o un computer possono essere aggregati solo ricorrendo al loro valore monetario ne discende che:
— la funzione di produzione (v.) neoclassica è valida solo nel caso, evidentemente irreale, in cui il sistema economico produca un solo bene, utilizzabile indifferentemente come bene di consumo o come mezzo di produzione;
— la teoria della distribuzione del reddito (v.) neoclassica è insufficiente. Per i neoclassici ogni fattore produttivo viene remunerato ad un prezzo pari alla sua produttività marginale: il prezzo del fattore lavoro sarà riferito alle ore lavorate, mentre quello del fattore terra sarà associato agli ettari. Nel caso del capitale, invece, non esiste una grandezza fisica di cui calcolare la produttività marginale per ottenere la remunerazione del fattore: occorre far riferimento al valore monetario dei beni considerati; ma questo valore (il prezzo relativo) secondo i neoclassici è determinabile solo se si conosce la produttività marginale del bene e si viene a creare, così, un circolo vizioso.
Gli economisti americani, dal canto loro, riproponevano (sia pure con maggiore raffinatezza) l'approccio neoclassico alla teoria della produzione. Il dibattito si trascinò per tutto il decennio, alimentato soprattutto dalle diverse concezioni ideologiche, e si concluse senza alcuna definitiva soluzione del problema.