Scioglimento del condominio
L’ipotesi relativa allo scioglimento del condominio è contemplata dall’art. 61, disp. att. c.c., il quale, al 1° co., dispone che qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio può essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato.
Quanto al concetto di edificio autonomo, tale fattispecie ricorre allorquando «in uno stesso condominio vi siano più corpi di fabbrica, oppure in uno stesso edificio vi siano più ali, ognuna dotata di proprio ingresso, scala, ascensore etc.» (DE GRANDI).
Il concetto stesso di «edifici autonomi» esclude che il risultato della separazione possa portare ad una forma di autonomia meramente amministrativa, in quanto il termine «edificio», più che ad un concetto di gestione, va riferito ad una costruzione dotata di autonomia strutturale, indipendentemente dalle semplici esigenze di carattere amministrativo (Cass. 18-7-1963, n. 1964). Interferenze di carattere amministrativo possono residuare dopo lo scioglimento, ma devono riguardare parti dell’edificio che possono rimanere in comune ai sensi dell’art. 62, disp. att. c.c. Al di fuori di interferenze relative alla gestione di beni comuni, «se la separazione del complesso immobiliare non può attuarsi se non mediante interferenze ben più gravi interessanti la sfera giuridica di altri condomìni, alla cui proprietà verrebbero ad imporsi limitazioni, servitù od altri oneri reali, è da escludere che l’edificio scorporando possa avere una propria autonomia strutturale» (SFORZA).
La giurisprudenza ha precisato che nel caso in cui, una volta sciolto il condominio, rimangano in comune alcuni dei beni di cui all’art. 1117 c.c., questi ultimi restano soggetti non alla disciplina della comunione in generale, ma a quella del condominio negli edifici, la cui applicabilità prescinde dalla circostanza che i piani o le porzioni di piano, servite da quelle cose, si trovino in edifici distinti (Cass. 5-1-1980, n. 65). In questa ipotesi di scioglimento parziale, si pone il problema di determinare quale sia il regolamento applicabile per la disciplina delle parti rimaste in comune: secondo la giurisprudenza, relativamente a tali parti permane l’operatività della disciplina condominiale, con la conseguenza che resta attribuito all’assemblea unitaria originaria l’approvazione delle delibere ad esse relative (Cass. 16-3-1981, n. 1440).
Lo scioglimento è deliberato dall’assemblea con la maggioranza prescritta dal 2° co. dell’art. 1136 c.c., cioè con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio, o è disposto dall’Autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell’edificio della quale si chiede la separazione (art. 61, 2° co., disp. att. c.c.). La giurisprudenza ha affermato che in questa ultima ipotesi la maggioranza va calcolata con riferimento a tutti i partecipanti del condominio oggetto dello scioglimento (App. Napoli 28-6-1962), e che il terzo dei proprietari che possono richiedere lo scioglimento giudiziale si riferisce al numero delle persone e non alle quote (Cass. 11-2-1974, n. 397).
L’art. 62, 2° co., disp. att. c.c., dispone che qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini, lo scioglimento del condominio deve essere deliberato dall’assemblea con la maggioranza prescritta dal 5° co. dell’art. 1136 c.c., ossia con un numero di voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio ed i due terzi del valore dell’edificio. Come è stato osservato (SFORZA), in questo caso lo scioglimento non può essere disposto dall’Autorità giudiziaria, in quanto questa non ha il potere di imporre l’esecuzione di innovazioni, ma può essere deliberato esclusivamente dalla assemblea di condominio, con le maggioranze sopra richiamate.
Quanto al concetto di edificio autonomo, tale fattispecie ricorre allorquando «in uno stesso condominio vi siano più corpi di fabbrica, oppure in uno stesso edificio vi siano più ali, ognuna dotata di proprio ingresso, scala, ascensore etc.» (DE GRANDI).
Il concetto stesso di «edifici autonomi» esclude che il risultato della separazione possa portare ad una forma di autonomia meramente amministrativa, in quanto il termine «edificio», più che ad un concetto di gestione, va riferito ad una costruzione dotata di autonomia strutturale, indipendentemente dalle semplici esigenze di carattere amministrativo (Cass. 18-7-1963, n. 1964). Interferenze di carattere amministrativo possono residuare dopo lo scioglimento, ma devono riguardare parti dell’edificio che possono rimanere in comune ai sensi dell’art. 62, disp. att. c.c. Al di fuori di interferenze relative alla gestione di beni comuni, «se la separazione del complesso immobiliare non può attuarsi se non mediante interferenze ben più gravi interessanti la sfera giuridica di altri condomìni, alla cui proprietà verrebbero ad imporsi limitazioni, servitù od altri oneri reali, è da escludere che l’edificio scorporando possa avere una propria autonomia strutturale» (SFORZA).
La giurisprudenza ha precisato che nel caso in cui, una volta sciolto il condominio, rimangano in comune alcuni dei beni di cui all’art. 1117 c.c., questi ultimi restano soggetti non alla disciplina della comunione in generale, ma a quella del condominio negli edifici, la cui applicabilità prescinde dalla circostanza che i piani o le porzioni di piano, servite da quelle cose, si trovino in edifici distinti (Cass. 5-1-1980, n. 65). In questa ipotesi di scioglimento parziale, si pone il problema di determinare quale sia il regolamento applicabile per la disciplina delle parti rimaste in comune: secondo la giurisprudenza, relativamente a tali parti permane l’operatività della disciplina condominiale, con la conseguenza che resta attribuito all’assemblea unitaria originaria l’approvazione delle delibere ad esse relative (Cass. 16-3-1981, n. 1440).
Lo scioglimento è deliberato dall’assemblea con la maggioranza prescritta dal 2° co. dell’art. 1136 c.c., cioè con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio, o è disposto dall’Autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell’edificio della quale si chiede la separazione (art. 61, 2° co., disp. att. c.c.). La giurisprudenza ha affermato che in questa ultima ipotesi la maggioranza va calcolata con riferimento a tutti i partecipanti del condominio oggetto dello scioglimento (App. Napoli 28-6-1962), e che il terzo dei proprietari che possono richiedere lo scioglimento giudiziale si riferisce al numero delle persone e non alle quote (Cass. 11-2-1974, n. 397).
L’art. 62, 2° co., disp. att. c.c., dispone che qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini, lo scioglimento del condominio deve essere deliberato dall’assemblea con la maggioranza prescritta dal 5° co. dell’art. 1136 c.c., ossia con un numero di voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio ed i due terzi del valore dell’edificio. Come è stato osservato (SFORZA), in questo caso lo scioglimento non può essere disposto dall’Autorità giudiziaria, in quanto questa non ha il potere di imporre l’esecuzione di innovazioni, ma può essere deliberato esclusivamente dalla assemblea di condominio, con le maggioranze sopra richiamate.