Parti comuni dell’edificio

Generalità - Parti comuni sono quelle necessarie per l’esistenza dell’edificio condominiale o permanentemente destinate all’uso comune da parte dei proprietari dei singoli appartamenti (Cass. 15-12-1984, n. 6575). Ai sensi dell’art. 1117 c.c., sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo:
— il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e in genere tutte la parti dell’edificio necessarie all’uso comune (c.d. beni comuni necessari);
— i locali per la portineria e per l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune (c.d. beni comuni di pertinenza);
— le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che servono all’uso e al godimento comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli acquedotti e inoltre le fognature e i canali di scarico, gli impianti per l’acqua, per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento e simili, fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condòmini (c.d. beni comuni accessori).
Le parti comuni dell’edificio sono strumentali al godimento delle proprietà solitarie e le conseguenze discendenti da tale vincolo di destinazione funzionale sono, da un lato, la loro normale indivisibilità, salvo che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso delle stesse a ciascun condòmino (art. 1119 c.c.) e, dall’altro, l’impossibilità, sempre per il condòmino, di sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione attraverso la rinunzia al diritto di comproprietà (art. 1118, 2° co., c.c.).
Indivisibilità
- L’indivisibilità (sia pure relativa) delle parti comuni viene affermata da una norma inderogabile di legge, sicché sarebbe nulla la clausola del regolamento di condominio approvato a maggioranza che prevedesse la divisibilità delle cose comuni nonostante la divisione rendesse l’uso delle stesse più incomodo a ciascun condòmino. La possibilità di addivenire alla divisione della cosa comune, anche con sacrificio di uno o più dei condòmini, deve tuttavia ritenersi ammissibile ove supportata dal consenso unanime di tutti i partecipanti al condominio. Al riguardo è stato affermato in dottrina che l’art. 1119 c.c. è espressione di un interesse «verso la cosa», differenziandosi in ciò dall’art. 1112 c.c., dettato in materia di scioglimento della comunione ordinaria, il quale tutelerebbe, invece, un interesse «verso gli altri partecipanti». A tale opinione si è obiettato che il legislatore ha inteso tutelare la facoltà del condòmino di usare delle cose comuni, con la conseguenza che deve ammettersi il frazionamento delle stesse ove permanga il rapporto di servizio con le proprietà solitarie: secondo questa diversa ricostruzione, l’art. 1119 c.c., pur nella sua inderogabilità, non stabilisce l’indivisibilità assoluta delle parti comuni ma solo l’impossibilità di addivenire alla loro divisione ove questa ne alteri non tanto (e comunque non solo) la consistenza materiale, quanto piuttosto la destinazione funzionale al servizio delle proprietà solitarie, sì che i condòmini, in conseguenza della divisione stessa, patiscano una significativa diminuzione nel godimento della rispettive proprietà esclusive o nell’uso delle stesse parti che sono state divise.
Irrinunciabilità
- L’art. 1104 c.c., che si riferisce espressamente alla comunione, stabilisce che ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla maggioranza, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto. Tale ultimo inciso non è applicabile ai rapporti condominiali, stante il disposto di cui all’art. 1118, ult. co., c.c., ai sensi del quale il condòmino non può, rinunziando al diritto sui beni comuni, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione.
L’art. 1118, ult. co., cit. è, per espressa previsione normativa inderogabile (art. 1138, ult. co., c.c.), sicché nemmeno il regolamento di condominio, pur se di natura contrattuale, potrebbe legittimamente derogare all’obbligo di contribuzione ed alla sua irrinunziabilità.
Si esclude, in tal modo, l’efficacia della rinuncia alle cose comuni, salvo che a tale atto di dismissione sia contestuale la rinuncia al diritto sull’unità abitativa in proprietà esclusiva.
In coerenza con questa impostazione, la giurisprudenza ha ritenuto nulla la clausola contenuta nel contratto di compravendita di un appartamento sito in un edificio in condominio con la quale veniva esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune parti dell’edificio, comuni per legge o per volontà delle parti, avendo una siffatta clausola il contenuto e gli effetti di una rinuncia del condòmino acquirente alle predette parti (Cass. 29-5-1995, n. 6036).
La ratio dell’art. 1118, ult. co., c.c. è da ricercarsi nel fatto che il godimento dei beni comuni è inscindibile dal correlativo godimento dei beni di proprietà esclusiva (si pensi, a titolo esemplificativo, ad una scala comune che sia unico accesso ad un appartamento di proprietà esclusiva). Il condòmino, pur rinunciando alla contitolarità del bene, continuerebbe di fatto necessariamente ad usufruirne, il che appare inaccettabile.
Va tuttavia sottolineato che l’inefficacia della rinuncia non opera con riguardo a quegli impianti condominiali da considerarsi superflui in relazione alle condizioni obiettive ed alle esigenze delle moderne concezioni di vita, ovvero illegali, perché vietati da norme imperative. In tali ipotesi, infatti, deve riconoscersi al singolo condòmino la facoltà di rinunciare alla cosa comune, perché in tal caso l’esistenza degli impianti trova la sua ragion d’essere esclusivamente nella determinazione dei condòmini che intendono conservarli.
Diritto del condòmino sulle parti comuni
- Il diritto di ciascun condòmino sulle parti comuni dell’edificio condominiale è proporzionato al valore del piano (o porzione di piano) che gli appartiene, salvo che il titolo disponga diversamente (art. 1118, 1° co., c.c.).
Per determinare l’estensione del godimento spettante a ciascun condòmino sulle parti oggetto di proprietà comune, si considera la situazione esistente al momento della nascita del condominio, avendo riguardo al «grezzo», senza considerare il canone locatizio, i miglioramenti e lo stato di manutenzione (art. 68, disp. att. c.c.), salvo che si tratti di innovazioni di larga portata.
La relativa determinazione risulta dalla tabella millesimale, un prospetto contenente dati numerici, espressi in millesimi, rappresentativi, per ogni unità immobiliari, della quota di comproprietà delle parti comuni e delle quote di spese per la manutenzione e la conservazione dei beni e dei servizi comuni. I valori espressi dalla tabella possono essere riveduti o modificati quando risulta che essi sono conseguenza di un errore ovvero quando, per le mutate condizioni di una parte dell’edificio, in conseguenza della sopraelevazione di nuovi piani, di espropriazione parziale o di innovazioni di vasta portata, si è notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano (art. 69, disp. att. c.c.).
Uso delle parti comuni
- Ciascun condòmino può godere delle parti comuni purché rispetti la loro destinazione economica, il diritto degli altri partecipanti ad un pari godimento delle stesse, la stabilità, la sicurezza e il decoro dell’edificio condominiale, nonché le proprietà solitarie degli altri partecipanti al condominio. In particolare al singolo condòmino non è consentito alterare la destinazione attuale della cosa comune (risultante dal titolo, da una deliberazione assembleare o dall’uso costante della stessa) in maniera tale da modificarla per tutti. Assai significativo, in tal senso, è il disposto dell’art. 1122 c.c., che vieta di eseguire nel piano (o porzione di piano) oggetto di proprietà esclusiva opere che rechino danno alle parti comuni. L’operatività di tale norma va esclusa nel caso di immissioni (dirette o indirette) sulle parti comuni cagionate da attività espletate nella propria unità immobiliare (es. immissioni di fumo nella scala comune): in tal caso, infatti, viene cagionata agli altri condòmini una mera turbativa nel godimento della cosa comune, mentre il cit. art. 1122 c.c. ha riguardo al pregiudizio della cosa comune, sicché l’unica forma di tutela azionabile risulta essere quella assicurata dall’art. 844 c.c. ed, eventualmente, dall’art. 833.