Destinazione d’uso
Divieti e limitazioni - Il regolamento di condominio di natura contrattuale può imporre il divieto di dare alle singole unità immobiliari una o più delle loro possibili destinazioni d’uso o l’obbligo di conservare la loro originaria e normale destinazione per l’utilità generale dell’intero edificio. Parimenti può imporre limitazioni più o meno ampie ai poteri e alle facoltà spettanti ai condòmini sulle unità immobiliari di loro proprietà esclusiva e sulle parti comuni dell’edificio.
I divieti e le limitazioni possono essere formulati mediante un’analitica elencazione delle attività vietate ovvero mediante la precisa indicazione dei pregiudizi che si vogliono evitare ai beni e ai servizi comuni.
Nel primo caso, per stabilire se una determinata destinazione d’uso sia vietata o limitata, sarà sufficiente verificare se essa rientri o meno tra quelle ricomprese nell’elencazione, e nel compiere questa verifica si dovranno interpretare secondo il loro tenore letterale, senza possibilità di estenderne l’applicazione attraverso interpretazioni analogiche, le clausole regolamentari impositive dei divieti o delle limitazioni: così, ad esempio, se è vietato apporre targhe o insegne sul muro comune o sulle proprietà individuali, il divieto non è violato dalla apposizione di piastrelle di ceramica artistica, senza scritta alcuna; se vi è divieto di destinare unità immobiliari a sanatori, gabinetti operatori, o centri per la cura di malattie infettive, il divieto non è violato con la destinazione a studio medico; se vi è divieto di destinazione delle unità immobiliari a palestre o istituti per esercizi fisici, il divieto non è violato dalla destinazione a gabinetto medico polispecialistico, che comprenda, fra l’altro, anche terapie a mezzo di esercizi fisici.
Nel secondo caso, invece, sarà necessario verificare in concreto l’idoneità della destinazione (che si contesta) a produrre i pregiudizi che si vogliono prevenire: così, ad esempio, se è vietato destinare le unità immobiliari ad uffici o esercizi (pubblici o privati) tali da turbare, per l’attività che in essi viene svolta, la quiete condominiale, il divieto non è violato dalla destinazione dell’immobile ad un’attività che non comporti tali conseguenze.
La giurisprudenza, dal canto suo, si è evoluta nel senso di limitare, per quanto possibile, il margine di ingerenza sia dell’assemblea, sia del regolamento (ancorché di natura contrattuale), nella proprietà individuale. In particolare si è ritenuto che le restrizioni delle facoltà spettanti ai condòmini sulle loro proprietà esclusive e sulla proprietà comune (imposte dal regolamento predisposto dall’originario unico proprietario o costruttore dello stabile condominiale ed accettato con l’atto di acquisto) devono essere «espressamente e chiaramente» enunciate, con la conseguente invalidità di quelle clausole che, con formulazione del tutto generica, limitino il diritto dei partecipanti al condominio di godere delle rispettive proprietà solitarie e delle parti comuni.
Mutamento di destinazione - La destinazione d’uso di un immobile individua il bene sotto l’aspetto funzionale, specificando le singole destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici; così la legislazione urbanistica prevede destinazioni d’uso residenziali, industriali, turistiche, commerciali, agricole etc., a seconda della zona in cui l’immobile sorge e dell’uso cui esso è destinato.
Nell’ambito di una stessa zona possono coesistere immobili con diversa destinazione. A titolo esemplificativo si pensi ad una zona residenziale, dove normalmente si ha la coesistenza di immobili con destinazione abitativa ed immobili adibiti ad altri usi (ad esempio, ufficio o esercizio commerciale).
Con riguardo alla L. 17-8-1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), che non recava alcuna disposizione in materia di mutamento della destinazione d’uso, dottrina e giurisprudenza affermavano che il mutamento stesso dovesse essere subordinato al rilascio della licenza di costruzione, data la sua attitudine a comportare comunque, anche se in misura limitata, una trasformazione urbanistica (si pensi, ad esempio, all’aumento di traffico o alla necessità di nuovi parcheggi, che può comportare il mutamento di un fabbricato urbano in un centro commerciale).
La L. 28-1-1977, n. 10, relativa all’edificabilità dei suoli, confermava questa tendenza. Essa, infatti, nel dettare la disciplina dei contributi concessori, mostrava sostanzialmente di rendere obbligatoria la concessione anche per i mutamenti della destinazione d’uso, recependo i risultati già raggiunti dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
In particolare, secondo l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, il mutamento della destinazione d’uso di un immobile, attuato senza l’assenso della pubblica amministrazione, anche qualora non avesse comportato modifiche alle originarie strutture edilizie, costituiva reato ai sensi dell’art. 17, lett. a), della L. 10/77 (Cass. S.U. 29-5-1982, n. 6).
Nel regime introdotto dalla L. 28-2-1985, n. 47, invece, il mutamento della destinazione d’uso poteva essere assoggettato a concessione edilizia o ad autorizzazione, a seconda che si accompagnasse alla realizzazione di interventi edilizi per i quali fosse richiesta la concessione ovvero ad interventi soggetti ad autorizzazione. I mutamenti di destinazione attuati senza l’esecuzione di opere edilizie dovevano trovare, invece, la loro disciplina nella legislazione regionale che, per la loro realizzazione, poteva richiedere o meno l’autorizzazione comunale (non la concessione).
Successivamente il regime della destinazione d’uso è stato modificato da una serie di decreti-legge (peraltro non convertiti) — che hanno subordinato il mutamento della destinazione al mero inoltro della denuncia d’inizio d’attività, quando questa non sia connessa all’esecuzione di opere (anche solo interne) preordinate allo stesso mutamento — e più di recente dall’art. 2, 60° co., della L. 23-12-1996, n. 662, che ha modificato l’ultimo comma dell’art. 25 della L. 47/85 e previsto che siano le Regioni a stabilire, con proprie leggi, quando per i mutamenti della destinazione d’uso (attuati o meno attraverso la realizzazione di opere edilizie) debba essere richiesta la concessione e quando l’autorizzazione. Al regime concretamente individuato si riconnette l’applicazione delle sanzioni penali previste dall’art. 20 della L. 47/85.
I divieti e le limitazioni possono essere formulati mediante un’analitica elencazione delle attività vietate ovvero mediante la precisa indicazione dei pregiudizi che si vogliono evitare ai beni e ai servizi comuni.
Nel primo caso, per stabilire se una determinata destinazione d’uso sia vietata o limitata, sarà sufficiente verificare se essa rientri o meno tra quelle ricomprese nell’elencazione, e nel compiere questa verifica si dovranno interpretare secondo il loro tenore letterale, senza possibilità di estenderne l’applicazione attraverso interpretazioni analogiche, le clausole regolamentari impositive dei divieti o delle limitazioni: così, ad esempio, se è vietato apporre targhe o insegne sul muro comune o sulle proprietà individuali, il divieto non è violato dalla apposizione di piastrelle di ceramica artistica, senza scritta alcuna; se vi è divieto di destinare unità immobiliari a sanatori, gabinetti operatori, o centri per la cura di malattie infettive, il divieto non è violato con la destinazione a studio medico; se vi è divieto di destinazione delle unità immobiliari a palestre o istituti per esercizi fisici, il divieto non è violato dalla destinazione a gabinetto medico polispecialistico, che comprenda, fra l’altro, anche terapie a mezzo di esercizi fisici.
Nel secondo caso, invece, sarà necessario verificare in concreto l’idoneità della destinazione (che si contesta) a produrre i pregiudizi che si vogliono prevenire: così, ad esempio, se è vietato destinare le unità immobiliari ad uffici o esercizi (pubblici o privati) tali da turbare, per l’attività che in essi viene svolta, la quiete condominiale, il divieto non è violato dalla destinazione dell’immobile ad un’attività che non comporti tali conseguenze.
La giurisprudenza, dal canto suo, si è evoluta nel senso di limitare, per quanto possibile, il margine di ingerenza sia dell’assemblea, sia del regolamento (ancorché di natura contrattuale), nella proprietà individuale. In particolare si è ritenuto che le restrizioni delle facoltà spettanti ai condòmini sulle loro proprietà esclusive e sulla proprietà comune (imposte dal regolamento predisposto dall’originario unico proprietario o costruttore dello stabile condominiale ed accettato con l’atto di acquisto) devono essere «espressamente e chiaramente» enunciate, con la conseguente invalidità di quelle clausole che, con formulazione del tutto generica, limitino il diritto dei partecipanti al condominio di godere delle rispettive proprietà solitarie e delle parti comuni.
Mutamento di destinazione - La destinazione d’uso di un immobile individua il bene sotto l’aspetto funzionale, specificando le singole destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici; così la legislazione urbanistica prevede destinazioni d’uso residenziali, industriali, turistiche, commerciali, agricole etc., a seconda della zona in cui l’immobile sorge e dell’uso cui esso è destinato.
Nell’ambito di una stessa zona possono coesistere immobili con diversa destinazione. A titolo esemplificativo si pensi ad una zona residenziale, dove normalmente si ha la coesistenza di immobili con destinazione abitativa ed immobili adibiti ad altri usi (ad esempio, ufficio o esercizio commerciale).
Con riguardo alla L. 17-8-1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), che non recava alcuna disposizione in materia di mutamento della destinazione d’uso, dottrina e giurisprudenza affermavano che il mutamento stesso dovesse essere subordinato al rilascio della licenza di costruzione, data la sua attitudine a comportare comunque, anche se in misura limitata, una trasformazione urbanistica (si pensi, ad esempio, all’aumento di traffico o alla necessità di nuovi parcheggi, che può comportare il mutamento di un fabbricato urbano in un centro commerciale).
La L. 28-1-1977, n. 10, relativa all’edificabilità dei suoli, confermava questa tendenza. Essa, infatti, nel dettare la disciplina dei contributi concessori, mostrava sostanzialmente di rendere obbligatoria la concessione anche per i mutamenti della destinazione d’uso, recependo i risultati già raggiunti dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
In particolare, secondo l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, il mutamento della destinazione d’uso di un immobile, attuato senza l’assenso della pubblica amministrazione, anche qualora non avesse comportato modifiche alle originarie strutture edilizie, costituiva reato ai sensi dell’art. 17, lett. a), della L. 10/77 (Cass. S.U. 29-5-1982, n. 6).
Nel regime introdotto dalla L. 28-2-1985, n. 47, invece, il mutamento della destinazione d’uso poteva essere assoggettato a concessione edilizia o ad autorizzazione, a seconda che si accompagnasse alla realizzazione di interventi edilizi per i quali fosse richiesta la concessione ovvero ad interventi soggetti ad autorizzazione. I mutamenti di destinazione attuati senza l’esecuzione di opere edilizie dovevano trovare, invece, la loro disciplina nella legislazione regionale che, per la loro realizzazione, poteva richiedere o meno l’autorizzazione comunale (non la concessione).
Successivamente il regime della destinazione d’uso è stato modificato da una serie di decreti-legge (peraltro non convertiti) — che hanno subordinato il mutamento della destinazione al mero inoltro della denuncia d’inizio d’attività, quando questa non sia connessa all’esecuzione di opere (anche solo interne) preordinate allo stesso mutamento — e più di recente dall’art. 2, 60° co., della L. 23-12-1996, n. 662, che ha modificato l’ultimo comma dell’art. 25 della L. 47/85 e previsto che siano le Regioni a stabilire, con proprie leggi, quando per i mutamenti della destinazione d’uso (attuati o meno attraverso la realizzazione di opere edilizie) debba essere richiesta la concessione e quando l’autorizzazione. Al regime concretamente individuato si riconnette l’applicazione delle sanzioni penali previste dall’art. 20 della L. 47/85.