Simulazione
Simulazione [cfr. artt. 1414 ss. c.c.]
Si ha (—) quando le parti, di comune accordo dichiarano deliberatamente di concludere un negozio, mentre in realtà non vogliono concluderne nessuno (c.d. simulazione assoluta), oppure vogliono concluderne uno diverso (c.d. simulazione relativa).
Come es., rispettivamente, di simulazione assoluta o relativa, si pensi ai casi in cui io e Tizio ci accordiamo affinché apparentemente io gli venda tutti i miei beni, mentre in realtà non gli vendo nulla ed i beni restano miei, oppure, io, per sembrare munifico, faccio apparire come donazione ciò che in realtà è una vendita.
La (—) si distingueva dalla riserva mentale [vedi reservàtio mèntis], poiché nella simulazione il diverso volere è comune ad entrambe le parti (tra le quali intercorre il c.d. accordo simulatorio), mentre nella riserva mentale l’esistenza di una interna volontà diversa da quella manifestata non è riconoscibile dall’altra parte (se anche quest’ultima nasconde una volontà interna diversa, può esservi concorso di riserve mentali, ma non simulazione, mancando l’accordo delle parti).
In realtà, non corrispondendo le reciproche dichiarazioni delle parti al loro comune reale volere, si ha, nella simulazione, più che divergenza tra volontà e dichiarazione, divergenza delle due volontà che mirano a creare un’apparenza negoziale.
In diritto romano, se non era evidente la discordanza tra volontà e dichiarazione, il negozio apparente era normalmente riconosciuto valido ed efficace. Solo col tempo, si diede rilievo alle discordanze tra manifestazione e volontà, negando che il negozio così concluso fosse valido e produttivo di effetti, purché:
— vi fosse prova certa della discordanza;
— la vittima della discordanza (la parte cioè, che aveva interesse a chiedere l’inutilizzazione del negozio) avesse tenuto, per parte sua, un comportamento scusabile;
— non fossero stati lesi diritti di terzi estranei al negozio (la tutela dei terzi fu esigenza sempre primaria nell’esperienza giuridica romana).
La giurisprudenza classica, in particolare, iniziò a dar rilievo, tra le sole parti, all’accordo simulatorio sottostante, se di esso fosse stata offerta prova sicura: si trattò, però, di una sporadica intuizione, e non di un principio consolidato. Solo in diritto giustinianeo si affermò il principio secondo cui si riteneva improduttivo di effetti il negozio simulato, mentre era reputato efficace e valido, almeno in generale, il negozio effettivamente voluto dalle parti (c.d. negozio dissimulato). Tuttavia, se il negozio dissimulato era vietato dalla legge (es. donazione tra coniugi), era ugualmente ritenuto nullo; se, invece, era diretto a frodare qualche soggetto, questi era tutelato indirettamente attraverso la concessione di un’excèptio doli [vedi].
Per designare i negozi simulati, i Romani parlarono di volta in volta di contractus imaginàrii, di nuptiæ simulatæ, di acta simulata.
Si ha (—) quando le parti, di comune accordo dichiarano deliberatamente di concludere un negozio, mentre in realtà non vogliono concluderne nessuno (c.d. simulazione assoluta), oppure vogliono concluderne uno diverso (c.d. simulazione relativa).
Come es., rispettivamente, di simulazione assoluta o relativa, si pensi ai casi in cui io e Tizio ci accordiamo affinché apparentemente io gli venda tutti i miei beni, mentre in realtà non gli vendo nulla ed i beni restano miei, oppure, io, per sembrare munifico, faccio apparire come donazione ciò che in realtà è una vendita.
La (—) si distingueva dalla riserva mentale [vedi reservàtio mèntis], poiché nella simulazione il diverso volere è comune ad entrambe le parti (tra le quali intercorre il c.d. accordo simulatorio), mentre nella riserva mentale l’esistenza di una interna volontà diversa da quella manifestata non è riconoscibile dall’altra parte (se anche quest’ultima nasconde una volontà interna diversa, può esservi concorso di riserve mentali, ma non simulazione, mancando l’accordo delle parti).
In realtà, non corrispondendo le reciproche dichiarazioni delle parti al loro comune reale volere, si ha, nella simulazione, più che divergenza tra volontà e dichiarazione, divergenza delle due volontà che mirano a creare un’apparenza negoziale.
In diritto romano, se non era evidente la discordanza tra volontà e dichiarazione, il negozio apparente era normalmente riconosciuto valido ed efficace. Solo col tempo, si diede rilievo alle discordanze tra manifestazione e volontà, negando che il negozio così concluso fosse valido e produttivo di effetti, purché:
— vi fosse prova certa della discordanza;
— la vittima della discordanza (la parte cioè, che aveva interesse a chiedere l’inutilizzazione del negozio) avesse tenuto, per parte sua, un comportamento scusabile;
— non fossero stati lesi diritti di terzi estranei al negozio (la tutela dei terzi fu esigenza sempre primaria nell’esperienza giuridica romana).
La giurisprudenza classica, in particolare, iniziò a dar rilievo, tra le sole parti, all’accordo simulatorio sottostante, se di esso fosse stata offerta prova sicura: si trattò, però, di una sporadica intuizione, e non di un principio consolidato. Solo in diritto giustinianeo si affermò il principio secondo cui si riteneva improduttivo di effetti il negozio simulato, mentre era reputato efficace e valido, almeno in generale, il negozio effettivamente voluto dalle parti (c.d. negozio dissimulato). Tuttavia, se il negozio dissimulato era vietato dalla legge (es. donazione tra coniugi), era ugualmente ritenuto nullo; se, invece, era diretto a frodare qualche soggetto, questi era tutelato indirettamente attraverso la concessione di un’excèptio doli [vedi].
Per designare i negozi simulati, i Romani parlarono di volta in volta di contractus imaginàrii, di nuptiæ simulatæ, di acta simulata.