Senàtus
Senàtus [Senato]
Era l’assemblea dei patres, o degli anziani.
Varie sono le tesi riportate dalla moderna dottrina sull’origine di tale organismo; alcuni studiosi ritengono che i patres fossero gli anziani capi delle gentes [vedi gens], altri ritengono che fossero gli originari esponenti del ceto patrizio. Controversa è, inoltre, la stessa composizione originaria del (—): alcuni autori ritengono che la scelta dei membri fosse di competenza regia, altri che i senatori fossero scelti in base a criteri dinastici.
In età monarchica, il (—) era essenzialmente l’organo consultivo del rex [vedi]: il rex, pur non essendo vincolato dai pareri senatoriali, doveva comunque tenere conto di essi, ai fini di ogni decisione.
A tale organo competeva (almeno fino all’avvento dei sovrani etruschi) la scelta dell’intèrrex [vedi interrègnum] e conseguenzialmente del rex, prescelto, a sua volta, dall’interrex di turno.
Nel corso dell’età repubblicana, il (—) acquisì una posizione di notevole rilievo istituzionale divenendo l’organo di maggior rilievo politico in Roma, in ragione soprattutto della sua stabilità a fronte della durata annuale delle magistrature repubblicane.
Composto in origine solo da patrizi, nel corso del IV a.C. il (—) subì una profonda trasformazione a seguito del progressivo inserimento nel suo organico di esponenti della classe plebea: da organo prettamente patrizio, espressione dell’antica nobìlitas aristocratica, divenne, invece, espressione della nuova nobilitas di estrazione patrizio-plebea, caratterizzata da un potere economico, più che dinastico.
Tale evoluzione fu sancita normativamente, intorno al 312 a.C., dalla lex Ovìnia [vedi], che introdusse nuove disposizioni in ordine alla nomina dei senatori. Questi, eletti dai censori tra ex magistrati, ogni 5 anni, ricoprivano tale carica fino alla loro morte, salva destituzione a seguito di dichiarazione di indegnità.
Il numero dei membri variò in maniera rilevante durante l’età repubblicana; in origine 300, fu portato da Silla [vedi] a 600 e da Cesare [vedi] a 900.
I principali poteri attribuiti al (—), in periodo repubblicano, furono:
— l’auctòritas, ossia la potestà di confermare o meno le deliberazioni comiziali [vedi comìtia]. In origine l’atto di conferma era successivo all’approvazione delle leggi; in un secondo momento divenne preventivo, secondo quanto disposto dalla lex Publìlia Philònis de patrum auctoritàte del 339 a.C.;
— il consìlium, che si concretizzava nell’emanazione di pareri [vedi senatusconsùltum] diretti ai magistrati. La funzione consultiva costituì il perno dell’azione politica senatoriale, incidendo in modo penetrante sull’azione delle autorità cittadine.
Difatti, pur non essendo il parere giuridicamente vincolante per i magistrati, raramente questi si discostavano da esso, diventando spesso meri esecutori materiali della volontà senatoria.
Tra le materie di competenza del (—), sostanzialmente afferenti a tutti gli aspetti della vita pubblica, un ruolo essenziale deve riconoscersi alla politica estera ed alla prorogàtio impèrii [vedi]. Quanto alla prima esso, aveva una posizione monopolistica, che si esprimeva nel potere di dichiarare guerra, di stipulare trattati di pace e di alleanza e di gestire le relazioni diplomatiche; la seconda, invece, consisteva nella concessione, ai magistrati che avevano concluso l’anno di carica, di una proroga dei poteri e delle funzioni.
Nei primi tre secoli dell’età del principato il (—) fu l’unico organismo di matrice repubblicana rimasto in vita, con qualche attribuzione, come espressione fondamentale della classe nobiliare. Delle antiche funzioni, alcune vennero meno, altre, invece, furono notevolmente ampliate; in particolare furono considerate fonti di diritto le deliberazioni del (—).
Naturalmente, con l’accentuarsi delle tendenze assolutistiche ed accentratrici dei prìncipes, le competenze senatoriali subirono sempre una più profonda erosione: così, il potere consultivo, pur sopravvivendo nelle sue caratteristiche tradizionali, poté essere esercitato solo nelle materie non avocate a sé dal prìnceps. Ben presto, tuttavia, anche in tali materie residue l’attività del senatusconsultum si ridusse a mera conferma delle decisioni imperiali: l’imperatore, che era, ormai, titolare esclusivo del iùs agèndi cum pàtribus (potere di convocazione del (—)), con una relàtio personale, ovvero con un’oràtio letta da un suo rappresentante, c.d. “oratio principis in senatu habita”, pur limitandosi a richiedere al (—) l’adozione di un provvedimento, nella sostanza dettava all’assemblea dei patres la sua volontà senza che questa potesse in alcun modo disattenderla ovvero discostarsene.
Tale processo di esautoramento dell’istituzione senatoriale subì una profonda accelerazione ad opera di Diocleziano [vedi] e dei suoi successori, che crearono una struttura burocratica fortemente centralizzata. In tale organizzazione non poteva trovare spazio un organo consultivo, espressione (pur se svalutata) di un ceto oligarchico nobiliare, oramai privo della reale possibilità di incidere nella vita politica romana.
Era l’assemblea dei patres, o degli anziani.
Varie sono le tesi riportate dalla moderna dottrina sull’origine di tale organismo; alcuni studiosi ritengono che i patres fossero gli anziani capi delle gentes [vedi gens], altri ritengono che fossero gli originari esponenti del ceto patrizio. Controversa è, inoltre, la stessa composizione originaria del (—): alcuni autori ritengono che la scelta dei membri fosse di competenza regia, altri che i senatori fossero scelti in base a criteri dinastici.
In età monarchica, il (—) era essenzialmente l’organo consultivo del rex [vedi]: il rex, pur non essendo vincolato dai pareri senatoriali, doveva comunque tenere conto di essi, ai fini di ogni decisione.
A tale organo competeva (almeno fino all’avvento dei sovrani etruschi) la scelta dell’intèrrex [vedi interrègnum] e conseguenzialmente del rex, prescelto, a sua volta, dall’interrex di turno.
Nel corso dell’età repubblicana, il (—) acquisì una posizione di notevole rilievo istituzionale divenendo l’organo di maggior rilievo politico in Roma, in ragione soprattutto della sua stabilità a fronte della durata annuale delle magistrature repubblicane.
Composto in origine solo da patrizi, nel corso del IV a.C. il (—) subì una profonda trasformazione a seguito del progressivo inserimento nel suo organico di esponenti della classe plebea: da organo prettamente patrizio, espressione dell’antica nobìlitas aristocratica, divenne, invece, espressione della nuova nobilitas di estrazione patrizio-plebea, caratterizzata da un potere economico, più che dinastico.
Tale evoluzione fu sancita normativamente, intorno al 312 a.C., dalla lex Ovìnia [vedi], che introdusse nuove disposizioni in ordine alla nomina dei senatori. Questi, eletti dai censori tra ex magistrati, ogni 5 anni, ricoprivano tale carica fino alla loro morte, salva destituzione a seguito di dichiarazione di indegnità.
Il numero dei membri variò in maniera rilevante durante l’età repubblicana; in origine 300, fu portato da Silla [vedi] a 600 e da Cesare [vedi] a 900.
I principali poteri attribuiti al (—), in periodo repubblicano, furono:
— l’auctòritas, ossia la potestà di confermare o meno le deliberazioni comiziali [vedi comìtia]. In origine l’atto di conferma era successivo all’approvazione delle leggi; in un secondo momento divenne preventivo, secondo quanto disposto dalla lex Publìlia Philònis de patrum auctoritàte del 339 a.C.;
— il consìlium, che si concretizzava nell’emanazione di pareri [vedi senatusconsùltum] diretti ai magistrati. La funzione consultiva costituì il perno dell’azione politica senatoriale, incidendo in modo penetrante sull’azione delle autorità cittadine.
Difatti, pur non essendo il parere giuridicamente vincolante per i magistrati, raramente questi si discostavano da esso, diventando spesso meri esecutori materiali della volontà senatoria.
Tra le materie di competenza del (—), sostanzialmente afferenti a tutti gli aspetti della vita pubblica, un ruolo essenziale deve riconoscersi alla politica estera ed alla prorogàtio impèrii [vedi]. Quanto alla prima esso, aveva una posizione monopolistica, che si esprimeva nel potere di dichiarare guerra, di stipulare trattati di pace e di alleanza e di gestire le relazioni diplomatiche; la seconda, invece, consisteva nella concessione, ai magistrati che avevano concluso l’anno di carica, di una proroga dei poteri e delle funzioni.
Nei primi tre secoli dell’età del principato il (—) fu l’unico organismo di matrice repubblicana rimasto in vita, con qualche attribuzione, come espressione fondamentale della classe nobiliare. Delle antiche funzioni, alcune vennero meno, altre, invece, furono notevolmente ampliate; in particolare furono considerate fonti di diritto le deliberazioni del (—).
Naturalmente, con l’accentuarsi delle tendenze assolutistiche ed accentratrici dei prìncipes, le competenze senatoriali subirono sempre una più profonda erosione: così, il potere consultivo, pur sopravvivendo nelle sue caratteristiche tradizionali, poté essere esercitato solo nelle materie non avocate a sé dal prìnceps. Ben presto, tuttavia, anche in tali materie residue l’attività del senatusconsultum si ridusse a mera conferma delle decisioni imperiali: l’imperatore, che era, ormai, titolare esclusivo del iùs agèndi cum pàtribus (potere di convocazione del (—)), con una relàtio personale, ovvero con un’oràtio letta da un suo rappresentante, c.d. “oratio principis in senatu habita”, pur limitandosi a richiedere al (—) l’adozione di un provvedimento, nella sostanza dettava all’assemblea dei patres la sua volontà senza che questa potesse in alcun modo disattenderla ovvero discostarsene.
Tale processo di esautoramento dell’istituzione senatoriale subì una profonda accelerazione ad opera di Diocleziano [vedi] e dei suoi successori, che crearono una struttura burocratica fortemente centralizzata. In tale organizzazione non poteva trovare spazio un organo consultivo, espressione (pur se svalutata) di un ceto oligarchico nobiliare, oramai privo della reale possibilità di incidere nella vita politica romana.