Querèla inofficiòsi testamènti
Querèla inofficiòsi testamènti [cfr. artt. 552 ss. c.c.]
Era un’azione giurisdizionale per sacramentum [vedi legis àctio sacramenti], mediante la quale gli stretti parenti del de cuius [vedi], anche se espressamente diseredati, impugnavano il testamento. Se infatti non vi era una giusta causa di diseredazione si riteneva che il de cuius venisse meno al dovere di provvedere ai suoi più stretti parenti se non avesse loro riservato almeno un quarto di quanto sarebbe loro spettato in caso di successione ab intestato. Con la (—), quindi, il querelante otteneva addirittura per l’intero (e non più per un quarto) la sua quota ab intestato.
L’istituto della legittima non fu introdotto nell’ordinamento giuridico romano per legge, ma fu creato in via di interpretazione mediante diversi espedienti: se il testatore, senza giustificato motivo, non aveva beneficato adeguatamente determinati congiunti, il testamento veniva considerato inofficiòsum, cioè non conforme al dovere (offìcium) che il testatore stesso aveva verso i congiunti. In giurisprudenza si fece ben presto largo la convinzione che un testamento inofficiosum non potesse provenire da una persona sana di mente: si ritenne, pertanto, che quel testamento potesse essere impugnato come nullo, quasi come se fosse stato fatto da un infermo di mente (sub colòre insaniæ).
La dottrina afferma che originariamente il diseredato era ammesso all’esercizio della hereditàtis petìtio [vedi], che si poteva, altresì, rivelare in molti casi inadeguata: la (—), invece, fu tipica del regime della cognìtio extra òrdinem [vedi], dove il magistrato, dotato di ampi poteri, poteva decidere delle sorti del testamento.
Nel periodo classico, la (—) poteva essere esercitata dai liberi, dai genitori del de cuius, nonché dalle sue sorelle o dai fratelli, nel termine di cinque anni dall’acquisto dell’herèditas [vedi]; il giudizio era rimesso alla discrezionalità del giudice, per quanto riguardava l’accertamento dell’effettiva violazione dell’officium pietàtis [vedi] (in linea di principio, si riteneva che il de cuius dovesse riservare ai parenti stretti almeno 1/4 di quanto sarebbe loro spettato in caso di successione ab intestato).
L’esercizio vittorioso della (—) non attribuiva all’attore una quota dell’asse ereditario, ma valeva solo ad invalidare il testamento, provocando l’apertura della successione legittima [vedi succèssio ab intestàto]; la soccombenza del querelante produceva, al contrario, la perdita di tutto ciò che gli era stato attribuito nel testamento.
La giurisprudenza postclassica, per ovviare ad alcuni inconvenienti legati al regime della (—) negò l’esercizio di tale mezzo giurisdizionale a chi fosse stato comunque destinatario di una attribuzione successoria, anche se insufficiente, riconoscendogli, però, in tal caso una “actio ad supplendam legitimam”, intesa ad integrare l’attribuzione ottenuta.
Ove possibile, si tendeva, peraltro, in applicazione del fàvor testamenti [vedi favor] a non invalidare del tutto il testamento, lasciando in vita, con sottili accorgimenti, quelle disposizioni che non erano incompatibili con la tutela dei congiunti, salvando in ogni caso i legati [vedi legàtum] e le manomissioni [vedi manumìssio].
Era un’azione giurisdizionale per sacramentum [vedi legis àctio sacramenti], mediante la quale gli stretti parenti del de cuius [vedi], anche se espressamente diseredati, impugnavano il testamento. Se infatti non vi era una giusta causa di diseredazione si riteneva che il de cuius venisse meno al dovere di provvedere ai suoi più stretti parenti se non avesse loro riservato almeno un quarto di quanto sarebbe loro spettato in caso di successione ab intestato. Con la (—), quindi, il querelante otteneva addirittura per l’intero (e non più per un quarto) la sua quota ab intestato.
L’istituto della legittima non fu introdotto nell’ordinamento giuridico romano per legge, ma fu creato in via di interpretazione mediante diversi espedienti: se il testatore, senza giustificato motivo, non aveva beneficato adeguatamente determinati congiunti, il testamento veniva considerato inofficiòsum, cioè non conforme al dovere (offìcium) che il testatore stesso aveva verso i congiunti. In giurisprudenza si fece ben presto largo la convinzione che un testamento inofficiosum non potesse provenire da una persona sana di mente: si ritenne, pertanto, che quel testamento potesse essere impugnato come nullo, quasi come se fosse stato fatto da un infermo di mente (sub colòre insaniæ).
La dottrina afferma che originariamente il diseredato era ammesso all’esercizio della hereditàtis petìtio [vedi], che si poteva, altresì, rivelare in molti casi inadeguata: la (—), invece, fu tipica del regime della cognìtio extra òrdinem [vedi], dove il magistrato, dotato di ampi poteri, poteva decidere delle sorti del testamento.
Nel periodo classico, la (—) poteva essere esercitata dai liberi, dai genitori del de cuius, nonché dalle sue sorelle o dai fratelli, nel termine di cinque anni dall’acquisto dell’herèditas [vedi]; il giudizio era rimesso alla discrezionalità del giudice, per quanto riguardava l’accertamento dell’effettiva violazione dell’officium pietàtis [vedi] (in linea di principio, si riteneva che il de cuius dovesse riservare ai parenti stretti almeno 1/4 di quanto sarebbe loro spettato in caso di successione ab intestato).
L’esercizio vittorioso della (—) non attribuiva all’attore una quota dell’asse ereditario, ma valeva solo ad invalidare il testamento, provocando l’apertura della successione legittima [vedi succèssio ab intestàto]; la soccombenza del querelante produceva, al contrario, la perdita di tutto ciò che gli era stato attribuito nel testamento.
La giurisprudenza postclassica, per ovviare ad alcuni inconvenienti legati al regime della (—) negò l’esercizio di tale mezzo giurisdizionale a chi fosse stato comunque destinatario di una attribuzione successoria, anche se insufficiente, riconoscendogli, però, in tal caso una “actio ad supplendam legitimam”, intesa ad integrare l’attribuzione ottenuta.
Ove possibile, si tendeva, peraltro, in applicazione del fàvor testamenti [vedi favor] a non invalidare del tutto il testamento, lasciando in vita, con sottili accorgimenti, quelle disposizioni che non erano incompatibili con la tutela dei congiunti, salvando in ogni caso i legati [vedi legàtum] e le manomissioni [vedi manumìssio].