Plùris petìtio
Plùris petìtio
L’espressione (—) deriva da plus pètere, chieder di più: si trattava, in diritto romano, di un istituto del processo per formulas [vedi].
Si aveva (—) se un soggetto nell’intèntio [vedi] aveva delineato il suo diritto in modo più ampio e intenso rispetto alla sua reale portata: in tal caso egli perdeva la lite.
Si distinguevano quattro tipi di (—):
— re: si verificava nei casi in cui l’intentio faceva riferimento ad un importo maggiore (se, ad es., invece di chiedere i 10.000 sesterzi dovuti, se ne chiedevano 20.000);
— tèmpore: si verificava nei casi in cui si chiedeva l’adempimento di un credito non ancora esigibile;
— loco: si verificava nei casi in cui il credito era dichiarato esigibile in un dato luogo, mentre lo era in un altro;
— causa: si verificava se l’intentio portava “come dovuta una soltanto tra più prestazioni di cui spettava al debitore la scelta oppure una cosa determinata in luogo del genus [vedi] che spettava al debitore di determinare”.
Gli effetti della (—) erano notevoli: dato che il giudicante doveva valutare se risultasse correttamente formulata o meno l’intentio, la conseguenza della (—) era l’assoluzione del convenuto.
Per ovviare a tale inconveniente si ricorreva, soprattutto nel caso di vendita rateale, alla præscrìptio [vedi] che era una clausola accessoria della formula, inserita prima dell’intèntio, con cui si limitava l’accertamento ad una parte del diritto di credito: nel caso di specie, le sole rate scadute.
Nessuna conseguenza era, invece, prevista in danno dell’attore in caso di (—) nella condemnàtio [vedi]: in questo caso, tuttavia, il convenuto che avesse per errore accettato una formula iniqua (in virtù dell’indebita maggiorazione della condemnatio) poteva chiedere al pretore la in ìntegrum restitùtio [vedi].
Se nella demonstràtio [vedi] vi era stata una (—), nulla era dedotto in giudizio e la questione restava impregiudicata, in quanto un’erronea esposizione non la annullava.
L’espressione (—) deriva da plus pètere, chieder di più: si trattava, in diritto romano, di un istituto del processo per formulas [vedi].
Si aveva (—) se un soggetto nell’intèntio [vedi] aveva delineato il suo diritto in modo più ampio e intenso rispetto alla sua reale portata: in tal caso egli perdeva la lite.
Si distinguevano quattro tipi di (—):
— re: si verificava nei casi in cui l’intentio faceva riferimento ad un importo maggiore (se, ad es., invece di chiedere i 10.000 sesterzi dovuti, se ne chiedevano 20.000);
— tèmpore: si verificava nei casi in cui si chiedeva l’adempimento di un credito non ancora esigibile;
— loco: si verificava nei casi in cui il credito era dichiarato esigibile in un dato luogo, mentre lo era in un altro;
— causa: si verificava se l’intentio portava “come dovuta una soltanto tra più prestazioni di cui spettava al debitore la scelta oppure una cosa determinata in luogo del genus [vedi] che spettava al debitore di determinare”.
Gli effetti della (—) erano notevoli: dato che il giudicante doveva valutare se risultasse correttamente formulata o meno l’intentio, la conseguenza della (—) era l’assoluzione del convenuto.
Per ovviare a tale inconveniente si ricorreva, soprattutto nel caso di vendita rateale, alla præscrìptio [vedi] che era una clausola accessoria della formula, inserita prima dell’intèntio, con cui si limitava l’accertamento ad una parte del diritto di credito: nel caso di specie, le sole rate scadute.
Nessuna conseguenza era, invece, prevista in danno dell’attore in caso di (—) nella condemnàtio [vedi]: in questo caso, tuttavia, il convenuto che avesse per errore accettato una formula iniqua (in virtù dell’indebita maggiorazione della condemnatio) poteva chiedere al pretore la in ìntegrum restitùtio [vedi].
Se nella demonstràtio [vedi] vi era stata una (—), nulla era dedotto in giudizio e la questione restava impregiudicata, in quanto un’erronea esposizione non la annullava.