Negozio giuridico
Negozio giuridico
Il (—) può essere definito come quell’atto giuridico lecito i cui effetti non sono predeterminati dalla legge, ma sono liberamente determinabili dalle parti, in conformità alla volontà espressa ed alla causa, cioè al fine economico-sociale che l’atto è obiettivamente capace di raggiungere.
Il diritto romano non ebbe consapevolezza del concetto di negozio giuridico e non ne elaborò una teoria generale che è, invece, frutto della dottrina tedesca del secolo scorso; mancò del tutto l’elaborazione di una figura generale a cui fossero riconducibili tutti gli atti giuridici volontari. I giuristi romani si limitarono ad approfondire le tematiche relative a singoli tipi di negozio giuridico, senza percepire l’appartenenza di ciascuno al gènus [vedi]). Purtuttavia, l’approfondimento dogmatico anzidetto portò all’individuazione di elementi suscettibili di generale applicazione per tutti i negozi giuridici: si pensi alla condizione (condìcio), al termine (dìes) od ai vizi della volontà come dolo, violenza ed errore, suscettibili di inficiare ogni atto giuridico.
Secondo parte della dottrina, furono anche individuati i requisiti fondamentali di validità, tendenzialmente propri di ogni (—):
— possibilità dell’oggetto, che doveva essere in rerum natura (non era, ad es., valida una stipulàtio [vedi] avente ad oggetto una cosa già distrutta da un incendio);
— liceità: lo scopo perseguito doveva essere lecito ossia consentito dall’ordinamento giuridico (non era, ad es. valida una stipulatio da cui derivassero limiti alla libertà testamentaria);
— legittimazione: ciascun soggetto poteva compiere soltanto negozi giuridici riguardanti la propria sfera giuridica;
— alternatività degli effetti: i negozi giuridici potevano produrre soltanto effetti reali od obbligatori.
Caratteristica del diritto romano fu la distinzione tra negozi iùre civili e negozi iure honorario (o prætorio), a seconda che fossero previsti dal ius civile [vedi] o, invece, manifestazioni di volontà che, pur se non produttive di effetti giuridici per il ius civile, creavano situazioni protette dal ius honorarium [vedi], cioè dal pretore nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale (esempio tipico di negozio iure honorario era il pactum de non petèndo [vedi]).
Ai negozi iure civili i Romani contrapponevano anche i negotia iuris gèntium [vedi ius gentium]: i primi, tutti atti solenni, potevano essere stipulati solo da e fra cittadini romani; i secondi anche dai peregrini [vedi].
Anche in diritto romano, come nel diritto vigente, si distingueva tra:
— negozi unilaterali e bilaterali;
— negozi solenni e non solenni;
— negozi causali ed astratti;
— negozi inter vivos e mortis causa [vedi].
Il (—) può essere definito come quell’atto giuridico lecito i cui effetti non sono predeterminati dalla legge, ma sono liberamente determinabili dalle parti, in conformità alla volontà espressa ed alla causa, cioè al fine economico-sociale che l’atto è obiettivamente capace di raggiungere.
Il diritto romano non ebbe consapevolezza del concetto di negozio giuridico e non ne elaborò una teoria generale che è, invece, frutto della dottrina tedesca del secolo scorso; mancò del tutto l’elaborazione di una figura generale a cui fossero riconducibili tutti gli atti giuridici volontari. I giuristi romani si limitarono ad approfondire le tematiche relative a singoli tipi di negozio giuridico, senza percepire l’appartenenza di ciascuno al gènus [vedi]). Purtuttavia, l’approfondimento dogmatico anzidetto portò all’individuazione di elementi suscettibili di generale applicazione per tutti i negozi giuridici: si pensi alla condizione (condìcio), al termine (dìes) od ai vizi della volontà come dolo, violenza ed errore, suscettibili di inficiare ogni atto giuridico.
Secondo parte della dottrina, furono anche individuati i requisiti fondamentali di validità, tendenzialmente propri di ogni (—):
— possibilità dell’oggetto, che doveva essere in rerum natura (non era, ad es., valida una stipulàtio [vedi] avente ad oggetto una cosa già distrutta da un incendio);
— liceità: lo scopo perseguito doveva essere lecito ossia consentito dall’ordinamento giuridico (non era, ad es. valida una stipulatio da cui derivassero limiti alla libertà testamentaria);
— legittimazione: ciascun soggetto poteva compiere soltanto negozi giuridici riguardanti la propria sfera giuridica;
— alternatività degli effetti: i negozi giuridici potevano produrre soltanto effetti reali od obbligatori.
Caratteristica del diritto romano fu la distinzione tra negozi iùre civili e negozi iure honorario (o prætorio), a seconda che fossero previsti dal ius civile [vedi] o, invece, manifestazioni di volontà che, pur se non produttive di effetti giuridici per il ius civile, creavano situazioni protette dal ius honorarium [vedi], cioè dal pretore nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale (esempio tipico di negozio iure honorario era il pactum de non petèndo [vedi]).
Ai negozi iure civili i Romani contrapponevano anche i negotia iuris gèntium [vedi ius gentium]: i primi, tutti atti solenni, potevano essere stipulati solo da e fra cittadini romani; i secondi anche dai peregrini [vedi].
Anche in diritto romano, come nel diritto vigente, si distingueva tra:
— negozi unilaterali e bilaterali;
— negozi solenni e non solenni;
— negozi causali ed astratti;
— negozi inter vivos e mortis causa [vedi].