Matrimònium

Matrimònium [Matrimonio; artt. 79-219 c.c.]

In diritto romano, il (—) costituiva il fondamento della familia [vedi] propria; fu definito da Modestino [vedi] come “… coniùnctio màris et féminæ et consòrtium omnis vitæ, divìni et humàni iùris communicàtio” (unione tra un uomo ed una donna che originava una comunione di tutta la vita, retta insieme da regole giuridiche e religiose).
La dottrina ha definito il (—) (c.d. nùptiæ) come seria, manifesta e continuata unione tra un uomo ed una donna.
Nonostante le notevoli evoluzioni e modifiche subìte nel corso delle varie epoche storiche, il (—) fu sempre retto da tre principi fondamentali:
— il principio della monogamia: in nessuna epoca del diritto romano, nemmeno in quella più antica o nell’ultimo periodo (pure contaminato da influssi orientali), fu consentito ad un uomo di avere due o più mogli legittime;
— il principio della consensualità: nel diritto romano, non fu mai l’atto formale a far sorgere il vincolo coniugale, ma sempre e soltanto il consenso (affèctio maritàlis [vedi]) dei coniugi. L’affectio fu elemento essenziale dell’istituto al punto che, come vedremo, il suo venir meno faceva cessare anche il vincolo; Ulpiano [vedi] diceva nuptias … non concubitus, sed consensus facit (il matrimonio non si costituisce in base alla consumazione, ma per effetto del consenso);
— il principio esogamico, per il quale il matrimonio era consentito solo tra soggetti appartenenti a gruppi familiari diversi, sia dal punto di vista agnatizio che da quello gentilizio, e, in seguito, da quello cognatizio.
In diritto romano si distingueva tra:
— (—) cum manu;
— (—) sine manu.
Il (—) cum manu
È la più antica forma di (—): la donna che lo contraeva usciva dalla famiglia d’origine ed entrava in una famiglia nuova, in condizione di sottoposta, loco filiæ (rispetto al marito) o loco nèptis (rispetto al pater di lui).
Il maritus (o il pater di lui) acquistava una particolare potestà sulla moglie, che prendeva il nome di manus maritàlis [vedi]: la donna, uscendo definitivamente dalla sua famiglia d’origine, perdeva ogni rapporto di agnazione con i suoi familiari di origine e quindi ogni aspettativa sulla loro eredità.
La perdita di ogni relazione con la famiglia d’origine era determinata dalla convèntio in manum: se la donna era sui iuris, ella apportava al maritus sui iuris tutto il suo patrimonio.
Fatti costitutivi della manus maritalis erano:
— la confarreàtio [vedi];
— la coëmptio [vedi];
— l’usus [vedi].
• Il (—) sine manu

Agli inizi dell’età preclassica, si avvertì l’esigenza di evitare che la donna perdesse i suoi legami e le aspettative successorie con la sua famiglia d’origine, o che perdesse, se sui iuris, la sua autonomia giuridica; a tale scopo i coniugi evitarono la cœmptio e la confarreatio, scegliendo di unirsi in matrimonio mediante l’usus. In tal modo fu sfruttata una disposizione della lex XII Tabularum [vedi] in base alla quale se la moglie si fosse allontanata per tre giorni di seguito di casa in un anno, si riteneva interrotto l’usus maritalis (c.d. trinoctii usurpatio). Praticando questo sistema annualmente, quindi, la manus non si sarebbe realizzata; purtuttavia i figli che nascevano sarebbero spettati ugualmente al marito (o al suo pater familias) in virtù di un’altra antica disposizione in base alla quale i frutti naturali di un oggetto giuridico spettavano a chi aveva operato la semina.
Nel costume sociale la libera unione che si veniva in tal modo a creare era ugualmente considerata (—): il (—) che così si poneva in essere era sine manu.
Gli sviluppi classici e postclassici
In diritto classico le forme del (—) cum manu caddero in desuetudine, divenendo nettamente prevalente il (—) sine manu.
In epoca postclassica, in base all’influsso del Cristianesimo, il matrimonio si andò configurando come negozio giuridico: per il sorgere del vincolo non occorreva più l’usus o il permanere dell’affectio, bastando il consenso iniziale dei nubendi.
Giustiniano, parallelamente all’affermarsi della nuova concezione del matrimonio come sacramento, stabilì, inoltre, che la prova dell’esistenza o della mancanza di affectio maritalis poteva essere tratta dall’essersi o meno presentate le parti alla benedizione religiosa del sacerdote.
In epoca tardo postclassica la benedizione religiosa divenne forma legale del (—), laddove, in precedenza, non era richiesta nessuna forma solenne.
I requisiti del (—)
Per aversi (—) iùstum, cioè valido, occorrevano i seguenti requisiti:
— i futuri coniugi dovevano entrambi essere forniti di iùs conùbii [vedi];
— essi dovevano inoltre avere l’età pubere [vedi pubèrtas] ed essere capaci di unirsi sessualmente. Tale capacità era determinata dalla differenza di sesso, dall’età pubere e dall’attitudine al congiungimento;
— il (—) doveva avere causa lecita: scopo essenziale era quello di stabilire tra i coniugi una adfìnitas [vedi], cioè un’affinità così stretta da potersi ritenere formata una nuova familia, di cui fosse capo il marito;
— il consenso del pater familias a cui i nubendi erano soggetti.
Il (—) iniùstum
Vari provvedimenti vietarono talune unioni matrimoniali considerate contrarie ad esigenze ritenute di particolare importanza.
I matrimoni posti in essere contro i divieti erano nulli, in quanto matrimonia iniusta.
Era iniustum in particolare il matrimonio tra la moglie colpevole di adulterio e il suo complice (per la lex Iulia et Papia [vedi] di Augusto); quello tra il tutore e la pupilla fino alla resa del conto; quello tra il funzionario di governo in provincia e una donna ivi domiciliata, fino alla cessazione della carica; quello tra senatores (e loro discendenti) e donne di condizione libertina o umile; quello tra rapitore e rapita, tra padrino e figlioccia e, in base a costituzioni postclassiche, quello con persone che avessero pronunciato il voto di castità o preso gli ordini ecclesiastici maggiori nonché quello tra cristiani ed ebrei.
In epoca imperiale, neppure i militari potevano contrarre matrimonio (ma potevano vivere con concubine, che venivano chiamate focatarie o hospitæ). Settimo Severo abolì tale divieto all’inizio del III secolo d.C.
Le secundæ nuptiæ erano, invece, ammesse, purché non fosse violato il tèmpus lugèndi, cioè il periodo di dieci mesi di lutto imposto dal costume sociale alla vedova.
Nel diritto postclassico furono contrastate le nozze del pàrens bínubo, cioè del coniuge che aveva avuto figli dal primo matrimonio.
Il matrimonio tra persone non aventi il conubium per ragioni di nazionalità era considerato comunque matrimonium, sia pure iniùstum: in tal caso il matrimonium, pur essendo nullo, produceva ugualmente alcuni effetti. Infatti contro la iniusta uxor valevano le pene comminate in caso di adulterio; inoltre, il matrimonium iniustum era di impedimento ad un matrimonio ulteriore.
Negli altri casi in cui il divieto era formulato da leggi o da fonti giuridiche imperiali, il matrimonio non era nullo, bensì produceva a carico del trasgressore varie sanzioni.
Gli effetti del (—)
Dalle iustæ nuptiæ derivavano i seguenti effetti:
— i figli nati da tale unione erano legittimi ed erano cittadini romani, anche se la madre era straniera (purché avesse il conubium);
— i figli erano sottoposti alla patria potèstas del genitore o, se questi era a sua volta filius familias, del di lui pater familias.
Il riconoscimento dei figli derivava implicitamente dalla convivenza matrimoniale: pater is est quem nuptiæ demònstrant.
Non erano attribuite azioni di disconoscimento al pater, né erano previste azioni per l’accertamento della legittimità a favore del filius. Nella pratica il pater riconosceva il proprio figlio, sollevando il neonato (tòllere lìberum) posto ai suoi piedi; il non farlo già implicava disconoscimento;
— tra i coniugi, nonché tra ciascuno di essi ed i parenti dell’altro, si creava il vincolo di adfinitas;
— trovavano applicazione quelle norme particolari, che presupponevano il rapporto di coniugio: es.: divieto di donazioni tra coniugi; divieto, almeno in epoca giustinianea, di azioni infamanti da parte di un coniuge contro l’altro; applicabilità delle norme sull’adultèrium, etc.;
— ammissione della præsùmptio Muciàna [vedi], la quale, allo scopo di evitare spiacevoli indagini, comportava che tutti gli acquisti patrimoniali fatti dalla moglie si presumevano fatti in favore e per conto del marito, salva la possibilità di offrire prova contraria.
La disciplina imperiale del (—)
In epoca imperiale, e particolarmente da Augusto in poi, gli imperatori intervennero con varie norme tese o a favorire o a limitare i matrimoni ovvero determinati tipi di matrimonio.
In particolare deve essere ricordata la lex Iulia et Papia (fusione della lex Iulia de maritàndis ordìnibus [vedi] del 18 a.C. e della lex Papia Poppæa nuptiàlis [vedi] del 9 d.C.), che fece obbligo agli uomini tra i 25 ed i 60 anni ed alle donne tra i 20 ed i 50 anni di contrarre matrimonio con persone rientranti nelle categorie medesime, comminando limitazioni di incapacità per coloro che non vi ottemperassero.
L’obbligo valeva anche per le persone vedove o divorziate, col solo limite per le donne del c.d. tempus lugendi, che la lex Papia fissò in dieci mesi dalla morte del marito.
Tali leggi, inoltre, favorivano anche la procreazione, colpendo i celibi e gli orbi (coniugati senza prole) con imposte e con limitazioni della capacità di succedere per testamento.
Per converso, alle donne che avevano partorito tre volte (quattro se liberte) veniva concesso il ius liberòrum, che comportava l’esenzione dalla tutela dell’agnatus e la piena capacità di disporre dei propri beni per testamento.
Le disposizioni della lex Iulia et Papia furono notevolmente attenuate da Costantino, che eliminò le incapacità successorie, e furono definitivamente abrogate da Giustiniano.
Cessazione e scioglimento del (—)
Il (—) si scioglieva:
— per morte di uno dei coniugi;
— per venir meno di uno dei requisiti necessari (es. per càpitis deminùtio maxima [vedi] di uno dei coniugi, per capitis deminutio media [vedi], per legami di parentela sopravvenuti tra i coniugi);
— per divortium [vedi].