Lègis àctio
Lègis àctio (o legis actiònes)
Le (—) costituirono la più antica forma processuale del diritto romano. Ampiamente diffuse all’epoca della legge delle XII Tavole [vedi lex XII Tabulàrum], sopravvissero formalmente per tutta l’età repubblicana. Furono ufficialmente abolite (salvo qualche eccezione) nel 17 a.C., dalla lex Iulia iudiciòrum privatòrum [vedi].
Le più antiche forme di procedimento giurisdizionale, che si riconnettono alle pratiche di autodifesa sviluppatesi nell’ambito dell’ius Quiritium [vedi], furono denominate, inizialmente, “actiones”: solo successivamente presero il nome di (—) con riferimento alla legge decemvirale [vedi lex XII Tabularum] e alle leggi successive che, per esaudire le esigenze di maggior garanzia della plebe, intervennero a disciplinarne ed arricchirne il sistema.
La (—) era una solenne affermazione del proprio diritto, compiuta di regola davanti al magistrato (in iùre) e secondo uno schema precostituito, che i privati non potevano mutare.
Secondo il migliore orientamento esse derivarono, nell’ambito del iùs Quirìtium [vedi], da una ritualizzazione delle pratiche di autotutela del diritto.
Dopo una iniziale fase pontificale, le leggi delle XII tavole ne tradussero in termini formali la realizzazione.
Il processo era diviso in due fasi:
— la prima fase, detta in iùre, davanti al magistrato;
— la seconda, detta àpud iùdicem, davanti al giudice privato.
• La fase in iure
La fase in iure aveva lo scopo di fissare, con certezza e precisione, i termini della controversia, ed esigeva, di conseguenza, la necessaria presenza di entrambe le parti: spettava all’attore condurre dinanzi al magistrato la controparte, nel caso anche con la forza. Davanti al magistrato, l’attore affermava solennemente il suo diritto.
L’elemento fondamentale della fase in iure era lo scambio tra le parti di dichiarazioni solenni, incompatibili tra loro (in quanto l’una affermava il diritto, l’altra lo negava).
Esse erano pronunciate davanti a testimoni, la cui presenza era esplicitamente richiesta: questa era la c.d. litis contestàtio [vedi].
La funzione della litis contestàtio era duplice:
— determinare l’oggetto del processo;
— impegnare le parti alla soluzione della lite mediante sentenza.
Con la litis contestàtio si verificava inoltre il c.d. fenomeno della consumazione processuale: l’obligàtio restava ferma, ma ne mutava la fonte; dopo la litis contestatio l’obbligo primario si trasformava nell’obbligo di subire la condanna. Con le loro dichiarazioni le parti promuovevano un processo e, impegnandosi a rispettare il provvedimento decisorio dell’autorità, rinunciavano alla difesa privata.
Se il convenuto non contrastava le affermazioni dell’avversario, si attuava la confessio in iure: il processo si arrestava nel momento in cui l’affermazione dell’attore riceveva la conferma del magistrato, cioè la sua addìctio. Lo stesso avveniva se il fondamento del diritto affermato dall’attore appariva evidente.
Si poteva quindi passare all’esecuzione, con la conseguenza che l’attore poteva impossessarsi della cosa o del debitore.
• La fase àpud iùdicem
Se le parti non raggiungevano alcun accordo, dopo la lìtis contestàtio [vedi], si apriva la fase apud iudicem (peraltro eventuale). Il magistrato rimetteva le parti dinanzi ad un iùdex privàtus (da lui scelto) il quale, ascoltate le loro ragioni ed esaminati i mezzi di prova, emetteva la sua sententia, oralmente.
Nella fase apud iudicem non era più necessaria la presenza di entrambe le parti: la sentenza, in assenza di una parte, interveniva ugualmente ed era sfavorevole a questa.
L’ufficio di giudice poteva essere affidato ad una persona sola o ad un collegio: nel primo caso, il giudice era nominato dal magistrato di volta in volta; nel secondo caso il collegio decideva un numero indefinito di controversie, avendo in determinate materie, competenze generali:
— in materia di libertà, erano competenti i decèmviri stlìtibus iudicàndis;
— in materia di eredità e di proprietà, erano competenti i centùmviri [vedi].
Nel caso fosse stata esperita la legis actio sacramènti [vedi], il giudice si limitava a dire quale delle parti avesse ragione, dichiarando, cioè, quale sacramentum (giuramento) fosse iustum: il giudice pronunciava un accertamento e non una condanna. Diversamente, nelle altre legis actiones dichiarative il giudice condannava, vale a dire ordinava al convenuto di tenere un dato comportamento.
Se il convenuto non ottemperava alla sentenza, intervenivano senz’altro misure esecutive; con l’actio in rem il convenuto perdeva il possesso della cosa in favore dell’avversario; con l’actio in personam era soggetto alla immediata esecuzione personale.
• Il diritto romano conobbe cinque legis actiones:
— (—) sacramenti [vedi];
— (—) per mànus iniectiònem [vedi];
— (—) per iùdicis arbitrìve postulatiònem [vedi];
— (—) per condictiònem [vedi];
— (—) per pìgnoris capiònem [vedi].
Le (—) costituirono la più antica forma processuale del diritto romano. Ampiamente diffuse all’epoca della legge delle XII Tavole [vedi lex XII Tabulàrum], sopravvissero formalmente per tutta l’età repubblicana. Furono ufficialmente abolite (salvo qualche eccezione) nel 17 a.C., dalla lex Iulia iudiciòrum privatòrum [vedi].
Le più antiche forme di procedimento giurisdizionale, che si riconnettono alle pratiche di autodifesa sviluppatesi nell’ambito dell’ius Quiritium [vedi], furono denominate, inizialmente, “actiones”: solo successivamente presero il nome di (—) con riferimento alla legge decemvirale [vedi lex XII Tabularum] e alle leggi successive che, per esaudire le esigenze di maggior garanzia della plebe, intervennero a disciplinarne ed arricchirne il sistema.
La (—) era una solenne affermazione del proprio diritto, compiuta di regola davanti al magistrato (in iùre) e secondo uno schema precostituito, che i privati non potevano mutare.
Secondo il migliore orientamento esse derivarono, nell’ambito del iùs Quirìtium [vedi], da una ritualizzazione delle pratiche di autotutela del diritto.
Dopo una iniziale fase pontificale, le leggi delle XII tavole ne tradussero in termini formali la realizzazione.
Il processo era diviso in due fasi:
— la prima fase, detta in iùre, davanti al magistrato;
— la seconda, detta àpud iùdicem, davanti al giudice privato.
• La fase in iure
La fase in iure aveva lo scopo di fissare, con certezza e precisione, i termini della controversia, ed esigeva, di conseguenza, la necessaria presenza di entrambe le parti: spettava all’attore condurre dinanzi al magistrato la controparte, nel caso anche con la forza. Davanti al magistrato, l’attore affermava solennemente il suo diritto.
L’elemento fondamentale della fase in iure era lo scambio tra le parti di dichiarazioni solenni, incompatibili tra loro (in quanto l’una affermava il diritto, l’altra lo negava).
Esse erano pronunciate davanti a testimoni, la cui presenza era esplicitamente richiesta: questa era la c.d. litis contestàtio [vedi].
La funzione della litis contestàtio era duplice:
— determinare l’oggetto del processo;
— impegnare le parti alla soluzione della lite mediante sentenza.
Con la litis contestàtio si verificava inoltre il c.d. fenomeno della consumazione processuale: l’obligàtio restava ferma, ma ne mutava la fonte; dopo la litis contestatio l’obbligo primario si trasformava nell’obbligo di subire la condanna. Con le loro dichiarazioni le parti promuovevano un processo e, impegnandosi a rispettare il provvedimento decisorio dell’autorità, rinunciavano alla difesa privata.
Se il convenuto non contrastava le affermazioni dell’avversario, si attuava la confessio in iure: il processo si arrestava nel momento in cui l’affermazione dell’attore riceveva la conferma del magistrato, cioè la sua addìctio. Lo stesso avveniva se il fondamento del diritto affermato dall’attore appariva evidente.
Si poteva quindi passare all’esecuzione, con la conseguenza che l’attore poteva impossessarsi della cosa o del debitore.
• La fase àpud iùdicem
Se le parti non raggiungevano alcun accordo, dopo la lìtis contestàtio [vedi], si apriva la fase apud iudicem (peraltro eventuale). Il magistrato rimetteva le parti dinanzi ad un iùdex privàtus (da lui scelto) il quale, ascoltate le loro ragioni ed esaminati i mezzi di prova, emetteva la sua sententia, oralmente.
Nella fase apud iudicem non era più necessaria la presenza di entrambe le parti: la sentenza, in assenza di una parte, interveniva ugualmente ed era sfavorevole a questa.
L’ufficio di giudice poteva essere affidato ad una persona sola o ad un collegio: nel primo caso, il giudice era nominato dal magistrato di volta in volta; nel secondo caso il collegio decideva un numero indefinito di controversie, avendo in determinate materie, competenze generali:
— in materia di libertà, erano competenti i decèmviri stlìtibus iudicàndis;
— in materia di eredità e di proprietà, erano competenti i centùmviri [vedi].
Nel caso fosse stata esperita la legis actio sacramènti [vedi], il giudice si limitava a dire quale delle parti avesse ragione, dichiarando, cioè, quale sacramentum (giuramento) fosse iustum: il giudice pronunciava un accertamento e non una condanna. Diversamente, nelle altre legis actiones dichiarative il giudice condannava, vale a dire ordinava al convenuto di tenere un dato comportamento.
Se il convenuto non ottemperava alla sentenza, intervenivano senz’altro misure esecutive; con l’actio in rem il convenuto perdeva il possesso della cosa in favore dell’avversario; con l’actio in personam era soggetto alla immediata esecuzione personale.
• Il diritto romano conobbe cinque legis actiones:
— (—) sacramenti [vedi];
— (—) per mànus iniectiònem [vedi];
— (—) per iùdicis arbitrìve postulatiònem [vedi];
— (—) per condictiònem [vedi];
— (—) per pìgnoris capiònem [vedi].