Interpretàtio

Interpretàtio [Interpretazione, cfr. artt. 12-14 disp. prel.; 1362-1371 c.c.]

Per i Romani l’(—) (con riferimento alle leggi) era il presupposto primo per l’applicazione del diritto e consisteva in un processo tecnico per cui, partendo dalle parole della legge e considerando ulteriori elementi, si perveniva a ricostruire l’effettiva portata della norma giuridica.
La (—) prudèntium (cioè dei soggetti particolarmente esperti di diritto) peraltro, nei tempi più antichi, aveva portata più vasta, importando sviluppo ed adattamento del diritto vigente alle contingenze della vita: si diceva infatti che tutto il iùs civile consisteva nella (—) prudentium.
Funzione dell’interprete, quindi, era quella di interpretare ed adottare gli antichi costumi, con la conseguenza che i giuristi erano considerati iuris auctòres, ossia veri e propri autori del diritto vigente.
Sul finire dell’epoca classica venne attribuito valore vincolante al parere dei giureconsulti e si giunse gradatamente a far coincidere il ius civile con la sola interpretazione giurisprudenziale. Secondo la famosa definizione di Cicerone (de orat. 1.212) i giuristi operavano tre tipi d’intervento: respondère, consistente nel fornire responsi su una determinata questione; àgere, cioè comporre schemi processuali su richiesta dei magistrati dei privati (tale attività non va confusa con l’assistenza in giudizio che spetta all’avvocato, non al giurista); cavère, cioè l’elaborazione di schemi negoziali, quali testamenti, mancipationes, stipulationes ecc.
Particolare rilievo nel periodo arcaico ebbe, altresì, l’(—) pontìficum; il monopolio pontificale della (—) durò sino al III sec. a.C., per lasciare spazio ad analoga attività interpretativa da parte della giurisprudenza laica.
Quando si diffusero le fonti legislative scritte ed in particolare le lèges publicæ, l’(—), rispetto ad esse, assunse funzione intellettiva, simile a quella moderna: si iniziò a parlare di mens legis, come qualche cosa di obiettivo proprio della legge ed il cui accertamento costituiva il fine della interpretazione.
La (—) comprendeva anche quella che i moderni chiamano interpretazione analogica o analogìa: attraverso di essa infatti fu ampliata la cerchia delle servitùtes [vedi], dei contractus, delle disposizioni testamentarie.
A prescindere dal rilievo dell’(—) in relazione a norme di leggi, va segnalato che al diritto romano non furono estranei canoni interpretativi di applicazione generalizzata, riferibili in particolare a negozi giuridici [vedi fàvor]: in tal caso, l’interpretazione era guidata talvolta dal fàvor rispetto a determinati istituti e situazioni (favor dotis, testamenti, libertàtis); talaltra, dalla benignità, come per la materia penale (fàvor benignitàtis).