Èrror
Èrror [Errore; cfr. artt. 1428 ss. c.c.]
L’(—) fu considerato dalla giurisprudenza classica come l’ignoranza o falsa conoscenza di una circostanza qualsiasi, che avesse avuto rilievo nel processo di formazione della volontà (c.d. èrror fàcti) e costituì, insieme al dolo ed alla violenza, uno dei vizi della volontà.
Prima del periodo classico, tuttavia, la rilevanza della volontà per il ius civile [vedi] era minima, se non esclusa, salvo che in campo testamentario. In diritto pretorio, fu concessa al soggetto caduto in errore soltanto una excèptio dòli [vedi].
In diritto classico, il negozio viziato da errore fu considerato inutile, se, oltre a trattarsi di negozio a forma libera e ad aversi prova certa dell’errore, quest’ultimo era:
— essenziale, e cioè, tale che in mancanza di tale errore, il negozio non sarebbe stato concluso;
— riconoscibile, e cioè, tale da poter essere autonomamente riconoscibile anche dalla controparte;
— scusabile, e cioè tale da potersi tollerare in una persona di normale diligenza e intelligenza.
Alla base dell’inutilità del negozio, fu posto il brocardo “erràntis nulla volùntas est” [vedi] (chi erra non ha alcuna volontà).
Si ritenne, invece, di regola inescusabile l’errore di diritto (error iùris), quello cioè che aveva ad oggetto norme giuridiche; questo principio generale trovava deroghe per quelle persone (minori, donne, militari, contadini) che, per le loro condizioni, erano ritenute impossibilitate a conoscere adeguatamente le norme vigenti. Solo per questi soggetti, l’error iùris rilevava.
La giurisprudenza classica fu larga nel riconoscere la rilevanza dell’error facti nei negozi a forma libera, restrittiva per quelli a forma vincolata (come testamentum [vedi] e stipulàtio [vedi]): la giurisprudenza postclassica ne riconobbe la rilevanza in ogni campo.
Tra gli erròres fàcti, si distinguevano:
— (—) in persona
L’(—) in persona era quello che cadeva sull’identità di una persona, a favore della quale si compiva l’atto o con la quale si concludeva il negozio.
Si considerava nulla la disposizione testamentaria in ogni sua parte, nel caso in cui Tizio, volendo istituire Caio come hères, durante la redazione del suo testamento avesse scritto il nome Sempronio: si riteneva che non esistesse una valida manifestazione di volontà.
Non in tutti i negozi giuridici l’(—) in persona aveva uguale rilevanza: era considerato essenziale nei negozi che si concludevano intùitu personæ, laddove cioè l’identità della persona era giudicata determinante per la conclusione del contratto (es.: il matrimonio).
— (—) in negotio
Era quello che si verificava se un soggetto riteneva di compiere un negozio (ad esempio, una locazione) e, invece, sottoscriveva un atto diverso (vendita): non si realizzava, in tal modo, né l’atto posto in essere, perché mancava la volontà, né quello voluto, perché non si manifestava alcuna volontà in tal senso.
— (—) in substàntia
Si aveva errore sulla sostanza, quando i soggetti erano d’accordo sull’individuazione della res [vedi], ma erano in contrasto sulla presenza o meno di alcune sue caratteristiche essenziali (es.: ritengo d’oro un bracciale che, invece, è di metallo dorato).
I Romani non adottarono soluzioni unitarie per l’(—) in substantia.
Così, Ulpiano [vedi], nel caso di compravendita di vino inacidito o di aceto ottenuto con sostanze artificiali, riteneva valida la vendita nel primo caso ed invalida nel secondo. Qualora la mancanza di determinate caratteristiche non avesse inciso sulla destinazione economico-sociale del bene, si sarebbe verificato l’(—) in qualitàte, che per il diritto classico, non era rilevante; in diritto giustinianeo si cominciò ad ammettere un’azione per il compratore al fine di ottenere la riduzione del prezzo.
— (—) in qualitàte
Si aveva errore sulla qualità quando il soggetto riteneva che la cosa oggetto del negozio avesse una determinata qualità. Esso non produceva nullità.
— (—) in còrpore
Ricorreva tale errore quando il soggetto riteneva che il negozio avesse per oggetto una cosa diversa da quella che in effetti aveva (c.d. errore sull’identità fisica della cosa: es., credo di vendere il fondo Corneliano ed invece vendo il fondo Saliniano). In tal caso, poiché l’errore influiva su tutto il negozio, in quanto mancava la volontà in relazione a quel determinato oggetto, il negozio non era valido. In altri casi, infine, l’errore funzionava all’inverso, cioè nel senso di render valido un negozio che senza l’errore sarebbe stato invalido: così, se una cittadina romana sposava un peregrino sine conubio, ritenendolo per errore cittadino romano, il matrimonio sarebbe stato nullo; essa, però, con l’erròris causa probàtio [vedi erroris probatio], poteva ottenere che il matrimonio fosse dichiarato valido e il marito acquistasse la cittadinanza romana.
— (—) in demonstratiòne
Riguardava la designazione esteriore di un soggetto o di un oggetto giuridico, che non creava però equivoci in ordine alla sua identificazione (c.d. (—) in nòmine: si pensi al caso in cui io so con chi concludo un affare, ma credo per errore che si chiami Tizio, invece di Caio); si riteneva normalmente irrilevante (falsa demonstràtio non nòcet).
— errore sui motivi
Si riteneva privo di rilievo anche l’errore sui motivi che avevano indotto un soggetto alla conclusione di un certo negozio giuridico (es.: si riteneva valido il legato lasciato a Tizio, perché aveva curato gli affari del de cùius, anche se Tizio in realtà non li aveva mai curati).
Nel diritto imperiale furono peraltro introdotte eccezioni al principio: Adriano dichiarò nullo il testamento in cui la madre, ritenendo falsamente morto il figlio, aveva istituito erede un estraneo; Caracalla annullò il testamento fatto da chi riteneva che gli eredi istituiti col precedente testamento fossero morti.
Dell’(—) vizio della volontà si distingueva il c.d. errore ostativo, che si verificava quando, per ignoranza o per altro motivo, si manifestava una volontà che era diversa dall’intimo volere (si pensi ad es. al soggetto che dice di voler donare a Tizio, mentre in realtà vuol donare a Caio).
La tendenza espressa in proposito dal diritto romano era nel senso di non dar rilievo all’errore ostativo e considerare, pertanto, valido ed efficace il negozio in apparenza concluso.
Col tempo, si dette rilievo alle discordanze tra manifestazione e volontà, negando che il negozio così concluso fosse valido e produttivo di effetti, purché:
— vi fosse prova certa della discordanza;
— la vittima della discordanza avesse tenuto, per parte sua, un comportamento scusabile;
— non fossero lesi diritti di terzi estranei al negozio (la tutela dei terzi fu esigenza sempre primaria nell’esperienza giuridica romana).
L’(—) fu considerato dalla giurisprudenza classica come l’ignoranza o falsa conoscenza di una circostanza qualsiasi, che avesse avuto rilievo nel processo di formazione della volontà (c.d. èrror fàcti) e costituì, insieme al dolo ed alla violenza, uno dei vizi della volontà.
Prima del periodo classico, tuttavia, la rilevanza della volontà per il ius civile [vedi] era minima, se non esclusa, salvo che in campo testamentario. In diritto pretorio, fu concessa al soggetto caduto in errore soltanto una excèptio dòli [vedi].
In diritto classico, il negozio viziato da errore fu considerato inutile, se, oltre a trattarsi di negozio a forma libera e ad aversi prova certa dell’errore, quest’ultimo era:
— essenziale, e cioè, tale che in mancanza di tale errore, il negozio non sarebbe stato concluso;
— riconoscibile, e cioè, tale da poter essere autonomamente riconoscibile anche dalla controparte;
— scusabile, e cioè tale da potersi tollerare in una persona di normale diligenza e intelligenza.
Alla base dell’inutilità del negozio, fu posto il brocardo “erràntis nulla volùntas est” [vedi] (chi erra non ha alcuna volontà).
Si ritenne, invece, di regola inescusabile l’errore di diritto (error iùris), quello cioè che aveva ad oggetto norme giuridiche; questo principio generale trovava deroghe per quelle persone (minori, donne, militari, contadini) che, per le loro condizioni, erano ritenute impossibilitate a conoscere adeguatamente le norme vigenti. Solo per questi soggetti, l’error iùris rilevava.
La giurisprudenza classica fu larga nel riconoscere la rilevanza dell’error facti nei negozi a forma libera, restrittiva per quelli a forma vincolata (come testamentum [vedi] e stipulàtio [vedi]): la giurisprudenza postclassica ne riconobbe la rilevanza in ogni campo.
Tra gli erròres fàcti, si distinguevano:
— (—) in persona
L’(—) in persona era quello che cadeva sull’identità di una persona, a favore della quale si compiva l’atto o con la quale si concludeva il negozio.
Si considerava nulla la disposizione testamentaria in ogni sua parte, nel caso in cui Tizio, volendo istituire Caio come hères, durante la redazione del suo testamento avesse scritto il nome Sempronio: si riteneva che non esistesse una valida manifestazione di volontà.
Non in tutti i negozi giuridici l’(—) in persona aveva uguale rilevanza: era considerato essenziale nei negozi che si concludevano intùitu personæ, laddove cioè l’identità della persona era giudicata determinante per la conclusione del contratto (es.: il matrimonio).
— (—) in negotio
Era quello che si verificava se un soggetto riteneva di compiere un negozio (ad esempio, una locazione) e, invece, sottoscriveva un atto diverso (vendita): non si realizzava, in tal modo, né l’atto posto in essere, perché mancava la volontà, né quello voluto, perché non si manifestava alcuna volontà in tal senso.
— (—) in substàntia
Si aveva errore sulla sostanza, quando i soggetti erano d’accordo sull’individuazione della res [vedi], ma erano in contrasto sulla presenza o meno di alcune sue caratteristiche essenziali (es.: ritengo d’oro un bracciale che, invece, è di metallo dorato).
I Romani non adottarono soluzioni unitarie per l’(—) in substantia.
Così, Ulpiano [vedi], nel caso di compravendita di vino inacidito o di aceto ottenuto con sostanze artificiali, riteneva valida la vendita nel primo caso ed invalida nel secondo. Qualora la mancanza di determinate caratteristiche non avesse inciso sulla destinazione economico-sociale del bene, si sarebbe verificato l’(—) in qualitàte, che per il diritto classico, non era rilevante; in diritto giustinianeo si cominciò ad ammettere un’azione per il compratore al fine di ottenere la riduzione del prezzo.
— (—) in qualitàte
Si aveva errore sulla qualità quando il soggetto riteneva che la cosa oggetto del negozio avesse una determinata qualità. Esso non produceva nullità.
— (—) in còrpore
Ricorreva tale errore quando il soggetto riteneva che il negozio avesse per oggetto una cosa diversa da quella che in effetti aveva (c.d. errore sull’identità fisica della cosa: es., credo di vendere il fondo Corneliano ed invece vendo il fondo Saliniano). In tal caso, poiché l’errore influiva su tutto il negozio, in quanto mancava la volontà in relazione a quel determinato oggetto, il negozio non era valido. In altri casi, infine, l’errore funzionava all’inverso, cioè nel senso di render valido un negozio che senza l’errore sarebbe stato invalido: così, se una cittadina romana sposava un peregrino sine conubio, ritenendolo per errore cittadino romano, il matrimonio sarebbe stato nullo; essa, però, con l’erròris causa probàtio [vedi erroris probatio], poteva ottenere che il matrimonio fosse dichiarato valido e il marito acquistasse la cittadinanza romana.
— (—) in demonstratiòne
Riguardava la designazione esteriore di un soggetto o di un oggetto giuridico, che non creava però equivoci in ordine alla sua identificazione (c.d. (—) in nòmine: si pensi al caso in cui io so con chi concludo un affare, ma credo per errore che si chiami Tizio, invece di Caio); si riteneva normalmente irrilevante (falsa demonstràtio non nòcet).
— errore sui motivi
Si riteneva privo di rilievo anche l’errore sui motivi che avevano indotto un soggetto alla conclusione di un certo negozio giuridico (es.: si riteneva valido il legato lasciato a Tizio, perché aveva curato gli affari del de cùius, anche se Tizio in realtà non li aveva mai curati).
Nel diritto imperiale furono peraltro introdotte eccezioni al principio: Adriano dichiarò nullo il testamento in cui la madre, ritenendo falsamente morto il figlio, aveva istituito erede un estraneo; Caracalla annullò il testamento fatto da chi riteneva che gli eredi istituiti col precedente testamento fossero morti.
Dell’(—) vizio della volontà si distingueva il c.d. errore ostativo, che si verificava quando, per ignoranza o per altro motivo, si manifestava una volontà che era diversa dall’intimo volere (si pensi ad es. al soggetto che dice di voler donare a Tizio, mentre in realtà vuol donare a Caio).
La tendenza espressa in proposito dal diritto romano era nel senso di non dar rilievo all’errore ostativo e considerare, pertanto, valido ed efficace il negozio in apparenza concluso.
Col tempo, si dette rilievo alle discordanze tra manifestazione e volontà, negando che il negozio così concluso fosse valido e produttivo di effetti, purché:
— vi fosse prova certa della discordanza;
— la vittima della discordanza avesse tenuto, per parte sua, un comportamento scusabile;
— non fossero lesi diritti di terzi estranei al negozio (la tutela dei terzi fu esigenza sempre primaria nell’esperienza giuridica romana).