Dos

Dos [Dote]

Si definiva (—) ogni apporto patrimoniale (beni mobili o immobili, crediti, altri diritti), che la moglie o il suo pater familias [vedi] o un terzo faceva al marito, ad sustinènda ònera matrimònii, ossia per sostenerlo economicamente nelle spese derivanti dalla conduzione della vita matrimoniale. La dote poteva essere data o promessa.
Si distingueva così:
dòtis dàtio, negozio con il quale si costituiva la dote mediante la trasmissione reale di beni;
dotis promìssio o dìctio [vedi], con cui si assumeva l’obbligo, generalmente nelle forme della stipulàtio [vedi], di costituire la dote.
A seconda del soggetto che costituiva o prometteva di costituire la dote, si distinguevano:
— (—) adventìcia (dote costituita da un estraneo), ossia la dote costituita da un soggetto diverso dal pater familias;
— (—) profectìcia (dote “a patre profecta”), ossia la dote costituita dal pater familias.
Si distingueva, inoltra, tra:
— (—) æstimàta (dote stimata): erano cosiddetti i beni dotali, il cui valore fosse stato stimato al momento della costituzione della dote, al fine di rendere più agevole per il marito l’adempimento dell’obbligo di restituzione del valore, in caso di scioglimento del matrimonio qualora le res dotales fossero distrutte o deteriorate;
— (—) receptìcia (dote da restituire): era così denominata la dote che il marito, in forza di una stipulatio effettuata all’atto di costituzione della dote stessa, si impegnava a restituire in caso di scioglimento del vincolo matrimoniale
In costanza del matrimonio, l’amministrazione del patrimonio dotale spettava al marito. Nell’espletamento di tale compito, egli doveva custodire e curare i beni conferiti in dote dalla moglie, adottando la diligenza del buon padre di famiglia e rispondendo della loro perdita o del loro deterioramento, non solo per dolo [vedi dolus], ma anche per culpa gravis e culpa levis [vedi culpa]. Con diversi provvedimenti normativi si cercò di evitare che il marito potesse disporre dei beni dotali:
a) Augusto, con la lex Iulia de adulteriis vietò al marito di alienare i fondi dotali esistenti in Italia o di costituirvi iura in re aliena, senza il consenso della moglie;
b) in epoca postclassica, venuta meno la distinzione tra fundi in solo italico e fundi provinciales, la regola fu estesa anche a questi ultimi;
c) Giustiniano vietò del tutto, anche col consenso della moglie, l’alienazione dei fondi dotali, dichiarandola nulla (prima, invece l’alienazione senza il consenso della moglie era solo annullabile ad istanza di questa, una volta sciolto il matrimonio).
Allo scioglimento del matrimonio, il marito doveva restituire la dote alla moglie o al suo adgnàtus proximus [vedi] o, in caso di (—) adventicia, al terzo che avesse costituito la dote.
Mentre in epoca arcaica, l’obbligo materiale di restituzione sorgeva solo se il marito si era impegnato in tal senso, all’atto di costituzione, con apposita stipulatio (detta càutio o stipulatio rèi uxòriæ) in età repubblicana fu introdotto il principio in forza del quale tale obbligo incombeva sul marito, nel caso di scioglimento del matrimonio per divorzio, in via automatica e, a tal fine, fu accordata alla moglie l’àctio rei uxoriæ [vedi].
In età postclassica, l’azione era concessa sempre, a prescindere dalla causa di scioglimento del matrimonio e prese il nome di actio de dote.
La restituzione della dote doveva essere immediata, per le cose infungibili non stimate; andava, invece, effettuata in tre rate annuali (annua, bima, trima dìe) se si trattava di denaro o di altre cose fungibili.
In presenza di determinate cause, il marito poteva, tuttavia, tenere una porzione del patrimonio dotale [vedi retèntio dotis].