Conversione del negozio giuridico
Conversione del negozio giuridico [cfr. art. 1424 c.c.]
Una delle forme di sanatoria del negozio giuridico [vedi], riconosciuta in diritto romano, per il quale il negozio nullo si considerava non alla stregua del tipo avuto presente dalle parti al momento della sua conclusione, ma di un altro negozio (idoneo egualmente a perseguire l’intento voluto dalle parti col negozio invalido), del quale fossero presenti tutti gli elementi.
Occorreva che:
— il negozio invalido potesse essere utilizzato, avesse cioè gli elementi di un altro negozio;
— l’altro negozio, anche se non voluto espressamente dalle parti, fosse idoneo a soddisfare lo scopo pratico avuto di mira dalle parti;
— la conversione risultasse opportuna.
Così se una acceptilàtio [vedi] (remissione formale del debito) che il creditore aveva fatto al debitore, risultava nulla, poteva convertirsi in un pactum de non petèndo [vedi], mediante il quale una parte si obbligava a non chiedere l’adempimento della obbligazione: tale patto, pur non estinguendo l’obbligazione per il diritto civile, impediva al creditore di agire per l’adempimento (il debitore, infatti, avrebbe potuto bloccare la pretesa del creditore, sollevando un’eccezione [vedi excèptio]).
Affini alla (—) erano i casi della:
— (—) formale, ammissibile quando la legge consentiva che se il negozio era redatto con una forma e questa era nulla, valesse come un negozio per il quale fosse richiesta una forma diversa.
Ad esempio, il testamento che non poteva valere, per difetto di forma, come ordinario valeva, se redatto da un militare, come testamento militare, poiché, per questo, occorrevano requisiti formali meno rigorosi;
— conservazione del negozio nullo iùre civili, per il diritto pretorio [vedi iùs honoràrium]: si aveva nei casi in cui il negozio era viziato per ragioni di forma e non sostanziali. In tali casi non si aveva un negozio diverso e quindi conversione, ma lo stesso negozio con forma mutata.
Una delle forme di sanatoria del negozio giuridico [vedi], riconosciuta in diritto romano, per il quale il negozio nullo si considerava non alla stregua del tipo avuto presente dalle parti al momento della sua conclusione, ma di un altro negozio (idoneo egualmente a perseguire l’intento voluto dalle parti col negozio invalido), del quale fossero presenti tutti gli elementi.
Occorreva che:
— il negozio invalido potesse essere utilizzato, avesse cioè gli elementi di un altro negozio;
— l’altro negozio, anche se non voluto espressamente dalle parti, fosse idoneo a soddisfare lo scopo pratico avuto di mira dalle parti;
— la conversione risultasse opportuna.
Così se una acceptilàtio [vedi] (remissione formale del debito) che il creditore aveva fatto al debitore, risultava nulla, poteva convertirsi in un pactum de non petèndo [vedi], mediante il quale una parte si obbligava a non chiedere l’adempimento della obbligazione: tale patto, pur non estinguendo l’obbligazione per il diritto civile, impediva al creditore di agire per l’adempimento (il debitore, infatti, avrebbe potuto bloccare la pretesa del creditore, sollevando un’eccezione [vedi excèptio]).
Affini alla (—) erano i casi della:
— (—) formale, ammissibile quando la legge consentiva che se il negozio era redatto con una forma e questa era nulla, valesse come un negozio per il quale fosse richiesta una forma diversa.
Ad esempio, il testamento che non poteva valere, per difetto di forma, come ordinario valeva, se redatto da un militare, come testamento militare, poiché, per questo, occorrevano requisiti formali meno rigorosi;
— conservazione del negozio nullo iùre civili, per il diritto pretorio [vedi iùs honoràrium]: si aveva nei casi in cui il negozio era viziato per ragioni di forma e non sostanziali. In tali casi non si aveva un negozio diverso e quindi conversione, ma lo stesso negozio con forma mutata.