Contratto preliminare

Contratto preliminare [cfr. artt. 1351, 2932 c.c.]

Il diritto romano non conosceva la figura tipica del (—), cioè del contratto avente ad oggetto la prestazione del consenso alla stipula di un futuro contratto (il c.d. contratto definitivo): le espressioni pactum de contrahèndo e pactum de inèundo contràctu, non sono romane.
Se due soggetti si impegnavano a stipulare in futuro un contratto, l’accordo così concluso era ritenuto inidoneo a far sorgere obbligazioni valide per il iùs civile [vedi].
Si riteneva valida, invece, la promessa di vendita posta in essere con le forme della stipulàtio: le parti potevano tutelarsi dall’eventuale rifiuto della controparte di stipulare il contratto definitivo, soltanto apponendo alla promessa di vendita una clausola penale (c.d. stipulatio pœnæ), destinata ad aver efficacia in caso di inadempimento. Era assolutamente escluso che si potesse adire il giudice per ottenere una sentenza in luogo del consenso al contratto definitivo non prestato dalla controparte inadempiente (ciò è, invece, possibile nel diritto civile vigente: cfr. art. 2932 c.c.).
Giustiniano si occupò della promessa di vendita in una costituzione del 528 d.C., prescrivendo che in tutti i contratti di vendita, nei quali le parti, dopo aver raggiunto un accordo verbale, avessero statuito di redigere l’atto per iscritto, la forma dovesse intendersi requisito ad substantiam.
Nel Digesto, che riporta un frammento di Paolo, si ammise espressamente la possibilità di una promessa di mutuo.