Cognìtio extra òrdinem

Cognìtio extra òrdinem

Era uno dei tre modelli processuali del diritto romano. Nata e sviluppatasi a partire dalla fine del periodo repubblicano, essa in epoca classica sostanzialmente affiancò la procedura per formulas [vedi processo per fòrmulas] fino a sostituirla del tutto, in periodo postclassico.
Originariamente tale procedimento veniva adottato per dirimere controversie di diritto pubblico; a partire da Augusto esso venne esteso anche a rapporti di natura privata.
La (—) si caratterizzava per i seguenti caratteri:
unità del procedimento: tutta l’attività processuale si svolgeva davanti allo stesso funzionario statale;
ampia discrezionalità del giudicante: il funzionario-giudice aveva ampi poteri per accertare il fatto;
procedibilità contumaciale: era necessario e sufficiente solo che il convenuto fosse stato avvertito dell’inizio del procedimento;
impugnabilità della sentenza;
specificità della condanna: la condanna non consisteva più nel pagamento di una somma di denaro, ma poteva imporre anche un comportamento specifico, come la restituzione della cosa, un pati, un non fàcere, etc.;
esecutività manu militari: l’esecuzione delle sentenze veniva demandata ad appositi organi statali, gli apparitòres [vedi].
La chiamata in giudizio del convenuto avveniva con una citazione [vedi evocàtio]. Il processo del tardo Impero conobbe, invece, la figura della lìtis denuntiàtio: l’attore redigeva un documento di citazione, lo presentava al giudice e, una volta approvato, lo notificava alla controparte. Nel diritto giustinianeo prevalse la diversa forma della citazione per libèllum: l’attore presentava al giudice lo scritto (libellus conventiònis) e chiedeva che il convenuto fosse chiamato in giudizio; il giudice, esaminata la richiesta e ritenutala non infondata, si pronunciava per l’accoglimento. Il convenuto, per costituirsi in giudizio, doveva redigere e notificare il suo libellus contradictiònis.
Le parti erano obbligate a presentarsi in giudizio, in quanto obbedivano all’ordine del giudice. L’istruzione probatoria era di competenza del giudice stesso, in base al principio inquisitorio, egli, però, nella valutazione delle prove doveva attenersi a un rigido schema prefissato.
Formatosi il convincimento, veniva emessa sentenza in giudizio.
L’“appellatio” [vedi] avveniva col deposito di un atto di appello presso il giudice che aveva emesso la sentenza. Il giudice superiore, ricevuti gli atti e una relazione sommaria dal collega di primo grado, invitava le parti a formulare le richieste (che potevano anche mutare) e a presentare le prove. La seconda sententia era normalmente inappellabile, salvo un ricorso speciale (“supplicatio”) all’imperatore.
Diritto penale
Il nuovo sistema processuale trovò applicazione anche in campo penale, dove soppiantò, formalmente, dal II sec. d.C., il sistema delle quæstiònes perpetuæ [vedi] (cui, peraltro, già da tempo si era sostanzialmente sostituito).
I suoi caratteri salienti furono i seguenti:
— l’attività di cognizione diretta dell’accusa e del giudizio era compiuta dallo stesso prìnceps, o (in sua vece) da altro magistrato o funzionario imperiale, con l’assistenza di un consìlium (dapprima nominato caso per caso, poi reso stabile da Adriano [vedi]);
— il giudizio finale non spettava, pertanto, al popolo riunito in comizi, né tantomeno a giurie (comunque composte).
Per effetto della diffusione della (—), il princeps (od i magistrati, in sua vece), potevano giudicare e punire ogni delitto, con pene di ogni genere.
Il processo nasceva a seguito di una denunzia di un cittadino, ma l’accusa era sostenuta in giudizio da un pubblico accusatore: la (—) aveva, pertanto, natura di processo inquisitorio, mentre le quæstiones avevano natura accusatoria.
Il magistrato giudicante ebbe, in origine, la possibilità di adeguare la pena da irrogare alla gravità del fatto.
Quanto ai delitti oggetto delle quæstiones, essi si arricchirono di nuove fattispecie, particolarmente nella fase del Dominato, in cui, peraltro, si attuò anche un notevole inasprimento delle pene. Vi fu anche una progressiva limitazione degli spazi di discrezionalità lasciati al magistrato giudicante in virtù di una tendenza (evidenziata dalle constitutiònes prìncipum [vedi] del tempo) a precisare minuziosamente sia gli estremi dei singoli reati, sia le relative pene.