Cessio crèditi
Cessio crèditi [Cessione del credito; cfr. artt. 1260 ss. c.c.]
La cessione del credito (dal creditore ad un terzo) fu diversamente realizzata nelle varie epoche del diritto romano:
— fino al II sec. d.C. essa non fu espressamente ritenuta ammissibile: i risultati della (—) venivano, pertanto, raggiunti mediante la procuràtio in rem suam [vedi]. Il sistema comportava, però, il grave inconveniente che, scadendo gli effetti della procuratio con la morte di una delle parti, le conseguenze della (—) potevano in qualsiasi momento essere vanificate;
— nel II sec. d.C., l’imperatore Antonino Pio concesse un’àctio utilis [vedi] in favore del soggetto che avesse acquistato un complesso ereditario: col tempo l’azione fu concessa in tutti i casi di (—) fino a divenire, in età giustinianea, di applicazione generale.
La (—) non poteva mai prescindere dalla causa [vedi]: se essa era stata operata a titolo di compravendita, il cedente doveva garantire al cessionario (l’acquirente) la sola esistenza del debito ceduto, il c.d. nòmen vèrum (si parlava, in proposito, di cessio pro solùto). Non era, invece, dovuta la garanzia del buon fine del credito, e cioè del sicuro adempimento del debitore (c.d. nomen bònum; si parlava, in proposito, di cessio pro solvèndo).
Il diritto romano postclassico, al fine di evitare speculazioni, indicò una serie di crediti ritenuti incedibili:
— i crediti litigiosi, quelli, cioè, oggetto di controversie giudiziarie;
— i crediti del pupillo (incedibili soltanto al tutore);
— [vedi cessio in potentiòrem].
Una più incisiva tutela contro eventuali abusi, derivò dalla c.d. lex Anastasiàna [vedi].
La stessa ratio [vedi] di evitare abusi o speculazioni, è alla base dell’art. 1261 c.c. vigente, che indica, a sua volta, una serie di crediti ritenuti incedibili dall’attuale ordinamento: da una lettura combinata delle categorie di crediti ritenute incedibili in diritto romano e nel diritto vigente emerge un interessante quadro dei costumi delle due epoche (in verità, inquietantemente analoghi).
La cessione del credito (dal creditore ad un terzo) fu diversamente realizzata nelle varie epoche del diritto romano:
— fino al II sec. d.C. essa non fu espressamente ritenuta ammissibile: i risultati della (—) venivano, pertanto, raggiunti mediante la procuràtio in rem suam [vedi]. Il sistema comportava, però, il grave inconveniente che, scadendo gli effetti della procuratio con la morte di una delle parti, le conseguenze della (—) potevano in qualsiasi momento essere vanificate;
— nel II sec. d.C., l’imperatore Antonino Pio concesse un’àctio utilis [vedi] in favore del soggetto che avesse acquistato un complesso ereditario: col tempo l’azione fu concessa in tutti i casi di (—) fino a divenire, in età giustinianea, di applicazione generale.
La (—) non poteva mai prescindere dalla causa [vedi]: se essa era stata operata a titolo di compravendita, il cedente doveva garantire al cessionario (l’acquirente) la sola esistenza del debito ceduto, il c.d. nòmen vèrum (si parlava, in proposito, di cessio pro solùto). Non era, invece, dovuta la garanzia del buon fine del credito, e cioè del sicuro adempimento del debitore (c.d. nomen bònum; si parlava, in proposito, di cessio pro solvèndo).
Il diritto romano postclassico, al fine di evitare speculazioni, indicò una serie di crediti ritenuti incedibili:
— i crediti litigiosi, quelli, cioè, oggetto di controversie giudiziarie;
— i crediti del pupillo (incedibili soltanto al tutore);
— [vedi cessio in potentiòrem].
Una più incisiva tutela contro eventuali abusi, derivò dalla c.d. lex Anastasiàna [vedi].
La stessa ratio [vedi] di evitare abusi o speculazioni, è alla base dell’art. 1261 c.c. vigente, che indica, a sua volta, una serie di crediti ritenuti incedibili dall’attuale ordinamento: da una lettura combinata delle categorie di crediti ritenute incedibili in diritto romano e nel diritto vigente emerge un interessante quadro dei costumi delle due epoche (in verità, inquietantemente analoghi).