Patrimonium Sancti Petri
Patrimonium Sancti Petri (Patrimonio di San Pietro)
Complesso delle immense proprietà terriere possedute dalla Santa Sede nel Lazio e in altre parti d’Italia, sino alla Sicilia.
Era costituito da beni immobili e aziende agrarie che ancora sotto il pontificato di Gregorio I Magno [vedi] (590-604) erano disciplinati da norme di diritto privato.
Fu merito di Gregorio Magno l’avere affrontato alla fine del secolo VI la ricognizione sistematica dello stato delle terre pontificie e l’avere pianificato un programma d’intervento volto a limitare sia la scelta degli amministratori locali, sia la mobilità dei coloni.
Particolarmente numerosi e di notevole valore erano i possedimenti in Sicilia (massae o tenimenta terrarum). Ciascuno di essi era costituito da varie aziende agrarie (condumae) ed era amministrato da conductores ivi residenti.
L’amministrazione dell’intero (—) era diretta e coordinata da un rector, che poteva avvalersi dell’ausilio di due o più vicarii. Il rector veniva controllato da uno o più ispettori (actores), inviati saltuariamente da Roma.
In seguito alla “donazione” con cui Liutprando [vedi] concesse al papa il castello di Sutri [vedi Donazione di Sutri] ed in conseguenza di altri importanti avvenimenti, quali la presenza degli Arabi in Sicilia e la pressione dei longobardi sui confini settentrionali, nel corso del secolo VIII la Chiesa concentrò i propri possedimenti agrari attorno a Roma, congiungendoli con i latifondi del ravennate, delle Marche e dell’Umbria.
Nel 754 Pipino il Breve [vedi] strappò ai Longobardi [vedi] i territori già bizantini e li donò al pontefice, con la conseguenza che ai possedimenti laziali si aggiunsero le province ravennati, la Pentapoli [vedi], Ferrara e Perugia.
Il (—) venne quindi assimilato alle prime linee di uno Stato pontificio [vedi], espressione di un dominio temporale del pontefice di Roma distinto da quello spirituale esercitato sulla Respublica Christiana.
Complesso delle immense proprietà terriere possedute dalla Santa Sede nel Lazio e in altre parti d’Italia, sino alla Sicilia.
Era costituito da beni immobili e aziende agrarie che ancora sotto il pontificato di Gregorio I Magno [vedi] (590-604) erano disciplinati da norme di diritto privato.
Fu merito di Gregorio Magno l’avere affrontato alla fine del secolo VI la ricognizione sistematica dello stato delle terre pontificie e l’avere pianificato un programma d’intervento volto a limitare sia la scelta degli amministratori locali, sia la mobilità dei coloni.
Particolarmente numerosi e di notevole valore erano i possedimenti in Sicilia (massae o tenimenta terrarum). Ciascuno di essi era costituito da varie aziende agrarie (condumae) ed era amministrato da conductores ivi residenti.
L’amministrazione dell’intero (—) era diretta e coordinata da un rector, che poteva avvalersi dell’ausilio di due o più vicarii. Il rector veniva controllato da uno o più ispettori (actores), inviati saltuariamente da Roma.
In seguito alla “donazione” con cui Liutprando [vedi] concesse al papa il castello di Sutri [vedi Donazione di Sutri] ed in conseguenza di altri importanti avvenimenti, quali la presenza degli Arabi in Sicilia e la pressione dei longobardi sui confini settentrionali, nel corso del secolo VIII la Chiesa concentrò i propri possedimenti agrari attorno a Roma, congiungendoli con i latifondi del ravennate, delle Marche e dell’Umbria.
Nel 754 Pipino il Breve [vedi] strappò ai Longobardi [vedi] i territori già bizantini e li donò al pontefice, con la conseguenza che ai possedimenti laziali si aggiunsero le province ravennati, la Pentapoli [vedi], Ferrara e Perugia.
Il (—) venne quindi assimilato alle prime linee di uno Stato pontificio [vedi], espressione di un dominio temporale del pontefice di Roma distinto da quello spirituale esercitato sulla Respublica Christiana.