Giurisprudenza

Giurisprudenza

In senso oggettivo, la (—) è costituita dall’insieme delle pronunce emesse dagli organi cui è demandato l’esercizio del potere giurisdizionale.
In senso soggettivo, indica l’insieme dei suddetti organi (giudici).
La (—) non rientra tra le fonti del diritto: ciò trova espressa conferma nel principio affermato dall’art. 2909 c.c. secondo cui le sentenze passate in giudicato hanno effetto soltanto tra le parti, i loro eredi e gli aventi causa.
In pratica, tuttavia, le massime consolidate in (—) concorrono alla formazione del diritto: d’altro canto, è lo stesso legislatore ad attribuire alla Corte di Cassazione il compito di garantire l’unità del diritto oggettivo.
Nel diritto romano dell’età arcaica, fino al III secolo a.C., la (—), intesa come conoscenza del diritto e delle relative procedure, era monopolio esclusivo dei pontifices. Con Gneo Flavio e Tiberio Coruncanio (III secolo a.C.) la (—) divenne laica e il giurista, mediante la triplice attività del respondére (fornire pareri sulle questioni loro sottoposte), cavére (assistere i privati nelle attività negoziali, ad es. nella redazione dei testamenti), àgere (dar pareri sulla condotta processuale), era il protagonista dell’ordinamento, anche perché a Roma la legge non aveva, specie in materia di diritto privato, l’importanza che per lo più le attribuiscono i sistemi giuridici moderni e, d’altra parte, non si richiedeva una particolare conoscenza del diritto né al magistrato né al iudex privatus, che si servivano della collaborazione del privato per la redazione dell’edictum [vedi] e per la decisione delle questioni dedotte in giudizio.
Appartenente al ceto dirigenziale, il giurista repubblicano per lo più ricopriva anche le più ambite cariche dell’ordine delle magistrature (cursus honorum) e, oltre che nelle cennate attività di consulenza, era impegnato anche in quelle d’insegnante e di scrittore: responsa e quaestiones furono i generi letterari in cui principalmente si espresse la (—) che, successivamente all’età augustea (contrassegnata dai contrasti di scuola tra sabiniani e proculiani, ebbe, tra gli Antonini e i Severi (II-III secolo d.C.), il periodo della massima fioritura con Salvio Giuliano [vedi], Africano [vedi] Pomponio, Gaio [vedi], Marcello, Cervidio Scevola [vedi], Papiniano [vedi], Paolo [vedi], Ulpiano [vedi], Marciano [vedi] e Modestino [vedi], che nelle loro opere casistiche elaborarono, attingendo anche al metodo dialettico di matrice filosofica greca, quelle costruzioni originali che tanta influenza avrebbero poi esercitato sulla civiltà giuridica dell’Occidente europeo medievale e moderno. Intanto, a partire da Ottaviano Augusto la (—) fu sempre più sottoposta al controllo del princeps, ma solo con Tiberio i responsa divennero vincolanti per i giudici.
In età postclassica non si rinunciò alla utilizzazione, in sede processuale, dei testi giurisprudenziali e solo con la legge delle citazioni [vedi Citazioni (legge delle)] del 426 d.C. si cercò di dettare delle regole per dirimere le discordanze tra i pareri allegabili dinanzi ai giudici. Il declino crescente della (—) non fu rallentato dalla relativa ripresa che vi fu in età postclassica con le scuole giuridiche orientali, alle quali va riconosciuto il merito di aver contribuito all’opera di codificazione promossa da Giustiniano che, nella costituzione Tanta, con cui promulgò i Digesta [vedi Digesto], vietò di compiere qualunque commentatio ai iura ivi raccolti.
Nel Medioevo alla (—) non venne assegnata alcuna collocazione autonoma. Essa, in quanto considerata interpretazione delle parole (interpretatio verborum), faceva parte della logica: rientrava, cioè nelle arti liberali (del trivio), che costituivano appunto la logica nel senso ampio e molteplice di arte del linguaggio. Tale sistemazione comportò, dal punto di vista teorico, la possibilità per la (—) di aprirsi ai procedimenti dialettici; dal punto di vista pratico si ottenne che nelle scuole l’insegnamento del diritto venisse considerato parte costitutiva e complementare della retorica.
In Italia, l’uso del termine (—) nel significato moderno, indicante l’interpretazione della legge da parte dei tribunali per l’applicazione di essa nel caso concreto, si affermò solo nel secolo XIX, grazie all’influenza esercitata dalla Francia e dalla dominazione francese in tal senso. Prima di tale secolo, il termine veniva usato talvolta per indicare il diritto romano o il diritto del Paese nel complesso dei suoi elementi (leggi, consuetudini, decisioni dei tribunali e pareri dei dottori) ma più spesso col significato di giurisprudenza dottorale, soprattutto degli autori di consilia e quaestiones. In Muratori [vedi Muratori Ludovico Antonio], inoltre, l’espressione veniva utilizzata per indicare i tecnici del diritto, ossia avvocati, giudici e consulenti in genere.