Espropriazione per pubblica utilità

Espropriazione per pubblica utilità

Istituto che attribuisce alla Pubblica Amministrazione la potestà di sacrificare diritti reali altrui nel pubblico interesse (a vantaggio proprio, di altre pubbliche amministrazioni o di privati) contro indennizzo.
Il diritto romano, anche dell’età postclassica e giustinianea, non pervenne alla configurazione di un vero e proprio istituto dell’(—), a causa della imperante concezione del dominium, categoria generale, assoluta, esclusiva e intollerante di qualsiasi limitazione proveniente dall’esterno, sia pure dallo Stato e per motivi di pubblico interesse. Le varie espropriazioni (che avvenivano soprattutto per la costruzione di strade o acquedotti), venivano compiute in via amministrativa, mediante il potere di coercizione dei magistrati.
Nemmeno durante il periodo germanico, in cui vigeva la concezione collettivistica della proprietà e nel periodo feudale, durante il quale venne accolta l’idea d’una proprietà generale dello Stato su tutto ciò che esisteva sul suo territorio, si giunse alla costruzione di una teoria dell’(—).
Fu in età comunale [vedi Comune medievale] che la dottrina giunse allo studio dell’istituto ed all’individuazione di limiti da imporre al sovrano a garanzia della proprietà. All’autorità comunale venne riconosciuto il diritto di togliere ai privati, in certi casi, i propri beni, ma soltanto per pubblico interesse e dietro corresponsione di un giusto prezzo.
La legislazione statutaria dei comuni conteneva frequentemente singole norme che imponevano l’esproprio, ma non prevedeva norme che stabilissero in generale i requisiti, le forme ed i procedimenti da osservare nell’esproprio.
Il requisito della preventività e generalità della legge sull’(—) fu fissato solo in età liberale, con l’avvento delle codificazioni [vedi Codificazione].