Enfiteusi ecclesiastica
Enfiteusi ecclesiastica
Caratterizzata rispetto all’enfiteusi del diritto laico dalla presenza nel rapporto di un ente ecclesiastico, quale titolare del dominio diretto sul fondo e del credito al canone enfiteutico.
A partire dal V secolo d.C. fu emanata una imponente legislazione imperiale, volta ad imporre notevoli restrizioni alla facoltà degli enti ecclesiastici di concedere in enfiteusi le proprie terre. Gli imperatori Leone I (457-474) e Antemio Procopio (467- 472) vietarono nel 470 le enfiteusi ecclesiastiche perpetue e Giustiniano I [vedi] limitò la durata dell’(—) alla vita del concessionario e a quella dei due immediati eredi (enfiteusi a terza generazione). Fu, inoltre, fissata d’imperio la misura minima del canone enfiteutico (cinque sesti del reddito totale), venne ridotta da tre a due anni la durata della mora ai fini della devoluzione (con esclusione del diritto dell’enfiteuta di rivalersi per eventuali spese di miglioramento) e furono stabilite norme circa la stima dei fondi, al fine di tutelare l’interesse della Chiesa. In definitiva, la legislazione laica, limitativa dell’(—), trovò la sua giustificazione nell’esigenza di tutelare i beni ecclesiastici.
Dal 544 in poi i divieti e le limitazioni si andarono attenuando, anche se si richiese per l’(—), a differenza di quella di diritto comune, la forma scritta dell’atto costitutivo: quest’ultimo richiedeva un atto di petizione del privato ed un praeceptum dell’ente concedente. Faceva seguito la sottoscrizione dell’atto da parte di tre o cinque testimoni ed il perfezionamento col sopravvenire del beneplacito del vescovo.
In età feudale apparvero le enfiteusi circostanziali, ossia concesse in considerazione della necessità politica di conquistarsi il favore dei potenti. Rientrava in tale categoria l’enfiteusi appoditizia, che i piccoli proprietari concedevano alla Chiesa, sia per ottenere protezione ed evitare usurpazioni da parte dei grandi feudatari, sia per rendere partecipi i propri beni dei privilegi ed immunità [vedi] sancite per i beni ecclesiastici. Accadeva, così, che il proprietario concedeva all’ente ecclesiastico la nuda proprietà del fondo e l’ente lo riconcedeva in enfiteusi allo stesso, con la conseguenza che il proprietario si trasformava in enfiteuta del medesimo bene.
Nel secolo XIX si affermò il principio della opportunità di costringere gli enti ecclesiastici a concedere in enfiteusi le proprie terre, al fine di evitare il fenomeno della manomorta [vedi]. Con la legge del 1862 n. 743, di contenuto analogo a quello della succesiva del 1873 n. 1402 emanata per la provincia romana, si obbligavano gli enti ecclesiastici, proprietari di latifondi in Sicilia, a cederli in enfiteusi perpetua.
Il codice civile del 1942 [vedi], all’art. 971 ha reso la possibilità di affrancazione dei fondi enfiteutici una caratteristica comune ad ogni enfiteusi, anche se l’(—) richiede, per l’affrancazione, l’autorizzazione della superiore autorità ecclesiastica.
Caratterizzata rispetto all’enfiteusi del diritto laico dalla presenza nel rapporto di un ente ecclesiastico, quale titolare del dominio diretto sul fondo e del credito al canone enfiteutico.
A partire dal V secolo d.C. fu emanata una imponente legislazione imperiale, volta ad imporre notevoli restrizioni alla facoltà degli enti ecclesiastici di concedere in enfiteusi le proprie terre. Gli imperatori Leone I (457-474) e Antemio Procopio (467- 472) vietarono nel 470 le enfiteusi ecclesiastiche perpetue e Giustiniano I [vedi] limitò la durata dell’(—) alla vita del concessionario e a quella dei due immediati eredi (enfiteusi a terza generazione). Fu, inoltre, fissata d’imperio la misura minima del canone enfiteutico (cinque sesti del reddito totale), venne ridotta da tre a due anni la durata della mora ai fini della devoluzione (con esclusione del diritto dell’enfiteuta di rivalersi per eventuali spese di miglioramento) e furono stabilite norme circa la stima dei fondi, al fine di tutelare l’interesse della Chiesa. In definitiva, la legislazione laica, limitativa dell’(—), trovò la sua giustificazione nell’esigenza di tutelare i beni ecclesiastici.
Dal 544 in poi i divieti e le limitazioni si andarono attenuando, anche se si richiese per l’(—), a differenza di quella di diritto comune, la forma scritta dell’atto costitutivo: quest’ultimo richiedeva un atto di petizione del privato ed un praeceptum dell’ente concedente. Faceva seguito la sottoscrizione dell’atto da parte di tre o cinque testimoni ed il perfezionamento col sopravvenire del beneplacito del vescovo.
In età feudale apparvero le enfiteusi circostanziali, ossia concesse in considerazione della necessità politica di conquistarsi il favore dei potenti. Rientrava in tale categoria l’enfiteusi appoditizia, che i piccoli proprietari concedevano alla Chiesa, sia per ottenere protezione ed evitare usurpazioni da parte dei grandi feudatari, sia per rendere partecipi i propri beni dei privilegi ed immunità [vedi] sancite per i beni ecclesiastici. Accadeva, così, che il proprietario concedeva all’ente ecclesiastico la nuda proprietà del fondo e l’ente lo riconcedeva in enfiteusi allo stesso, con la conseguenza che il proprietario si trasformava in enfiteuta del medesimo bene.
Nel secolo XIX si affermò il principio della opportunità di costringere gli enti ecclesiastici a concedere in enfiteusi le proprie terre, al fine di evitare il fenomeno della manomorta [vedi]. Con la legge del 1862 n. 743, di contenuto analogo a quello della succesiva del 1873 n. 1402 emanata per la provincia romana, si obbligavano gli enti ecclesiastici, proprietari di latifondi in Sicilia, a cederli in enfiteusi perpetua.
Il codice civile del 1942 [vedi], all’art. 971 ha reso la possibilità di affrancazione dei fondi enfiteutici una caratteristica comune ad ogni enfiteusi, anche se l’(—) richiede, per l’affrancazione, l’autorizzazione della superiore autorità ecclesiastica.