Enfiteusi

Enfiteusi

È un diritto reale di godimento su cosa altrui che attribuisce al titolare (enfiteuta) lo stesso potere di godimento del fondo che spetta al proprietario, salvo l’obbligo di migliorare il fondo e di pagare al proprietario (concedente) un canone periodico che costituisce un onere reale (artt. 957 ss. c.c.).
Originariamente, il termine emphyteusis, di origine greca, designava il rapporto di concessione di terre, intercorrente fra le città delle province orientali e i privati concessionari che si obbligavano a dissodare le terre incolte e a migliorarle.
Nel diritto romano, fino al periodo classico, non esisteva un istituto corrispondente. Scopi affini erano perseguiti attraverso concessioni in godimento di terre da parte delle città o di altri enti pubblici secondo uno schema analogo ma non identico alla locazione (locàtio condùctio). In ogni caso non era previsto in capo al concessionario l’obbligo del miglioramento del fondo, quanto piuttosto l’obbligo di pagare un modesto canone (vectìgal).
Dall’età di Costantino [vedi], nel IV secolo d.C., si affermarono due diversi tipi di concessione:
— il ius perpetuum, che aveva ad oggetto i fondi del fisco ed il cui canone non era modificabile;
— il ius emphyteuticàrum (risalente agli ordinamenti delle libere città greche di età classica, perpetuatisi in ambiente ellenistico) che aveva ad oggetto i fundi patrimoniales, ossia quelli della dinastia imperiale ed il cui canone era modificabile, in quanto implicava che fosse sempre riequilibrato il rapporto tra concedente e concessionario al fine del mantenimento dell’equilibrio economico tra i due.
Nel V secolo d.C. ius perpetuum e ius emphyteuticarum vennero unificati e denominati col solo nome di ius emphyteuticarum, il quale presentava i seguenti caratteri:
— la concessione era data in perpetuo;
— il canone era considerato invariabile;
— concedente nella prassi divenne anche il privato e non più solo la comunità pubblica o l’imperatore.
Risolvendo i dubbi avanzati in dottrina sul punto, l’imperatore Zenone (474-491) stabilì che, in caso di distruzione del fondo, il danno doveva essere sopportato dal concedente, se il fondo periva totalmente, cessando l’obbligo dell’enfiteuta, e dal concessionario nel caso di danni temporanei, dovendo questi continuare a pagare il canone.
Nel diritto giustinianeo l’(—) fu configurata come un rapporto assoluto reale in senso improprio. I giuristi dell’epoca modificarono la disciplina dell’istituto: venne imposto all’enfiteuta l’obbligo di comunicare al proprietario ogni trasferimento che egli volesse fare del suo diritto e fu accordato al proprietario un diritto di prelazione (ius protimèseos), grazie al quale egli, offrendo pari condizioni economiche, doveva essere preferito, nel riscatto del fondo enfiteuticario, al terzo che intendesse acquistare, a sua volta, dall’enfiteuta il diritto di (—). Se il proprietario non esercitava tale diritto, gli spettava il c.d. laudèmium, cioè una sorta di indennità pari al due per cento del prezzo pagato dal nuovo enfiteuta.
Il concedente poteva risolvere il rapporto con la c.d. devoluzione, qualora l’enfiteuta per tre anni consecutivi non avesse pagato il canone o le imposte gravanti sul fondo, non avesse fatto la comunicazione dell’alienazione o non avesse pagato il laudemio, oppure avesse gravemente danneggiato il fondo.
Il codice civile del 1865 [vedi], all’art. 1556, annoverava e disciplinava l’(—) fra i contratti, inserendolo dopo le norme sui contratti di vendita e permuta e prima di quelle sul contratto di locazione.
Il codice civile del 1942 [vedi], invece, considera l’(—) un diritto reale limitato e lo disciplina subito dopo le norme sul diritto di superficie e prima di quelle sul diritto di usufrutto, uso e abitazione.