Divorzio

Divorzio

Nel diritto romano era previsto come una delle cause di scioglimento del matrimonio.
In origine solo il marito aveva la facoltà di ripudiare; successivamente tale facoltà fu riconosciuta anche alla donna. Un’unica limitazione era prevista per la liberta, la quale, se divorziava di sua iniziativa dal patrono, non poteva risposarsi.
Se il matrimonio era accompagnato da conventio in manum (atto formale col quale si aveva il passaggio della moglie nella potestà maritale), il (—) scioglieva il matrimonio ma non faceva venir meno la manus, occorrendo a tal fine, un atto inverso (la diffarreatio o la remancipatio). Per il matrimonio sine manu bastava che venisse meno definitivamente la vita in comune.
In origine e fino all’epoca repubblicana, qualunque causa era valida a costituire motivo di divorzio, anche se futile.
Solo la legislazione augustea punì, con una sanzione pecuniaria, il coniuge che, col suo comportamento, avesse dato origine al (—).
Nella concezione postclassica, che ravvisò nel matrimonio un effetto del consensus iniziale, il (—) fu identificato col repudium, considerato un negozio costitutivo dello scioglimento del matrimonio.
L’avvento del cristianesimo provocò la diffusione di tendenze antidivorzistiche, che portarono all’individuazione di giuste cause di (—):
— per la donna, quando il coniuge era riconosciuto omicida, violatore di sepolcri o avvelenatore;
— per il marito, quando la moglie fosse accusata di essere adultera, mezzana o avvelenatrice.
Chi divorziava unilateralmente, fuori da questi casi era punito gravemente. Nessun limite sussisteva, invece, per il (—) biaterale, cioè per quello voluto di comune accordo dai coniugi.
Giustiniano I
[vedi] ampliò le iustae causae di divorzio unilaterale, reputando valido il repudium nel caso in cui la donna fosse andata a banchettare o fare bagni con estranei o avesse frequentato spettacoli senza il consenso del marito; nel caso in cui il marito avesse tentato di fare prostituire la moglie o l’avesse accusata falsamente di adulterio, oppure avesse mantenuto una concubina; era, infine, iusta causa per entrambi i coniugi, l’aver teso insidia alla vita dell’altro o l’aver congiurato contro l’imperatore.
Accanto al (—) ex iusta causa venne introdotto il (—) ex bona gratia, per ragioni non imputabili a nessuno dei coniugi, come la prigionia di guerra (captivitas) durata per oltre cinque anni, il voto di castità o l’impotenza manifestata nei primi tre anni di matrimonio.
Per la validità del (—) era necessario un formale libèllum repùdi: in particolare, si ritenne necessario che la manifestazione di volontà volta allo scioglimento del legame matrimoniale (producendo effetti di notevole rilevanza sociale, in ordine, soprattutto allo status dei figli) fosse espressa in modo certo, definitivo ed inequivocabile, nonché senza l’apposizione di clausole (condizione, termine).
La legislazione barbarica ammise generalmente il (—), ad eccezione dei capitolari [vedi Capitolare] dei Franchi [vedi], i quali accolsero la concezione cristiana della perpetuità e indissolubilità del matrimonio.
Nel Medioevo e fino al secolo XVIII la Chiesa assunse una posizione preminente in materia matrimoniale e la possibilità del (—) venne meno.
Fu la Rivoluzione francese [vedi] del 1789 a rintrodurre l’istituto nelle sue leggi e il Code Napoléon [vedi] lo mantenne; abolito nel 1816, fu ripristinato in Francia nel 1884.
In Italia è stato introdotto con L. 898/ 1970, modificata con L. 74/1987.