Arbitrato
Arbitrato
Nel diritto processuale civile è il mezzo al quale le parti possono ricorrere per sottrarre alla giurisdizione ordinaria la decisione di una lite, realizzando così una sorta di giustizia privata, dettata cioè da un privato anziché da un giudice dello Stato. È sempre lo Stato, comunque, che attribuisce alla decisione privata il carattere giurisdizionale, cioè il carattere di sentenza.
L’istituto dell’(—) è previsto anche dal diritto internazionale, quale procedimento di risoluzione di una controversia affidata ad un giudice internazionale, la cui giurisdizione è stata preventivamente accettata dalle parti in controversia.
Nel diritto romano l’arbitratus prevedeva la facoltà delle parti di affidare ad un terzo, l’arbiter, la decisione di una o più controversie, sulla base di un accordo detto compromissum.
Con tale accordo, i soggetti si obbligavano all’accettazione e all’osservanza della decisione del giudice, e, contemporaneamente, dettavano le modalità e l’oggetto del giudizio.
La sentenza non costituiva res iuridica, ma produceva esclusivamente gli effetti obbligatori del compromesso, ai quali era quindi connessa una actio ex stipulatu.
Forme di (—) nelle controversie civili si ebbero anche nel Medioevo. Si pensi all’istituto dell’episcopalis udientia, strutturata su due caratteristiche essenziali: la facoltà delle parti di ricorrere liberamente al tribunale del vescovo per la risoluzione delle liti e la natura in origine tipicamente arbitrale della sentenza vescovile, emessa sulla base di valutazioni equitative.
Riferimenti a procedure arbitrali sono contenuti anche nelle raccolte legislative barbariche; la Lex Wisigothorum [vedi] contemplava espressamente l’(—), la Lex romana Wisigothorum [vedi] faceva riferimento ad una costituzione di Costantino sull’episcopalis audientia e la legge salica [vedi] affidava ai cd. apretiatores pretii il compito di determinare il valore delle cose che il debitore avrebbe dovuto corrispondere al creditore, qualora fosse stato impossibilitato a pagare il debito in denaro. Inoltre, l’ordinamento anglosassone rinveniva nel saamend la persona incaricata di determinare l’ammontare dei danni e l’entità del risarcimento, che l’autore di un reato avrebbe dovuto corrispondere alla vittima o ai parenti di essa.
Spetta, tuttavia, ai giuristi dell’età del diritto comune [vedi] il merito di aver disciplinato minutamente l’(—). Ai Commentatori [vedi] si deve l’approfondimento della distinzione, già attuata dai Glossatori [vedi] tra arbiter e arbitrator e poi accolta dall’ordinamento statutario.
Arbiter era colui al quale le parti in lite affidavano l’esame della causa civile, che doveva essere decisa de vire e secundum indiciorum ordinem, ossia secondo le norme del diritto vigente e secondo i riti in uso presso i tribunali pubblici. Le sue decisioni erano, inoltre, appellabili.
Arbitrator era colui che doveva definire una controversia civile secondo equità (ex bono et aequo) e senza l’osservanza dello ius strictum.
Altra importante distinzione fu fatta dalla legislazione e dalla giurisprudenza tra (—) volontario e necessario. Il primo trova origine esclusivamente dalla volontà delle parti ed in genere poteva riguardare qualsiasi controversia civile (ad esclusione delle liti matrimoniali, delle questioni di status personale, delle controversie contro il fisco ed in materia feudale).
Il secondo era quello imposto alle parti dal diritto positivo (e riguardava soprattutto le controversie familiari).
Verso la fine del secolo XIV la legislazione e la giurisprudenza cominciarono ad attribuire alla decisione dell’arbitro la stessa efficacia giuridica della sentenza pronunciata da un tribunale pubblico. Infatti, il giudice pubblico al quale veniva sottoposto il lodo arbitrale per l’attribuzione della sua esecutorietà, doveva limitarsi a renderlo esecutivo, senza dover riesaminare il fondamento del diritto delle parti o la giustezza della sentenza arbitrale. In tal modo l’(—) assunse un carattere processuale, quindi pubblico.
Ciò comportò il conferimento agli arbitri di alcuni poteri propri dei magistrati pubblici: il potere di pronunciare sentenze interlocutorie, di disporre la prova di un fatto controverso, di ascoltare i testimoni prodotti dalle parti e di ricevere il loro giuramento.
Poiché attraverso l’(—) i cittadini avevano la possibilità di sottrarsi all’esercizio della giurisdizione statuale, l’istituto non fu considerato con benevolenza nell’età moderna dagli Stati accentratori (Spagna, Francia, Inghilterra).
Ad esempio, le Costituzioni piemontesi [vedi] del Settecento furono spiccatamente contrarie ad esso. L’(—) necessario non fu accolto nelle codificazioni italiane post-napoleoniche ed il primo codice di procedura civile del Regno d’Italia previde solo l’(—) volontario.
Nel diritto processuale civile è il mezzo al quale le parti possono ricorrere per sottrarre alla giurisdizione ordinaria la decisione di una lite, realizzando così una sorta di giustizia privata, dettata cioè da un privato anziché da un giudice dello Stato. È sempre lo Stato, comunque, che attribuisce alla decisione privata il carattere giurisdizionale, cioè il carattere di sentenza.
L’istituto dell’(—) è previsto anche dal diritto internazionale, quale procedimento di risoluzione di una controversia affidata ad un giudice internazionale, la cui giurisdizione è stata preventivamente accettata dalle parti in controversia.
Nel diritto romano l’arbitratus prevedeva la facoltà delle parti di affidare ad un terzo, l’arbiter, la decisione di una o più controversie, sulla base di un accordo detto compromissum.
Con tale accordo, i soggetti si obbligavano all’accettazione e all’osservanza della decisione del giudice, e, contemporaneamente, dettavano le modalità e l’oggetto del giudizio.
La sentenza non costituiva res iuridica, ma produceva esclusivamente gli effetti obbligatori del compromesso, ai quali era quindi connessa una actio ex stipulatu.
Forme di (—) nelle controversie civili si ebbero anche nel Medioevo. Si pensi all’istituto dell’episcopalis udientia, strutturata su due caratteristiche essenziali: la facoltà delle parti di ricorrere liberamente al tribunale del vescovo per la risoluzione delle liti e la natura in origine tipicamente arbitrale della sentenza vescovile, emessa sulla base di valutazioni equitative.
Riferimenti a procedure arbitrali sono contenuti anche nelle raccolte legislative barbariche; la Lex Wisigothorum [vedi] contemplava espressamente l’(—), la Lex romana Wisigothorum [vedi] faceva riferimento ad una costituzione di Costantino sull’episcopalis audientia e la legge salica [vedi] affidava ai cd. apretiatores pretii il compito di determinare il valore delle cose che il debitore avrebbe dovuto corrispondere al creditore, qualora fosse stato impossibilitato a pagare il debito in denaro. Inoltre, l’ordinamento anglosassone rinveniva nel saamend la persona incaricata di determinare l’ammontare dei danni e l’entità del risarcimento, che l’autore di un reato avrebbe dovuto corrispondere alla vittima o ai parenti di essa.
Spetta, tuttavia, ai giuristi dell’età del diritto comune [vedi] il merito di aver disciplinato minutamente l’(—). Ai Commentatori [vedi] si deve l’approfondimento della distinzione, già attuata dai Glossatori [vedi] tra arbiter e arbitrator e poi accolta dall’ordinamento statutario.
Arbiter era colui al quale le parti in lite affidavano l’esame della causa civile, che doveva essere decisa de vire e secundum indiciorum ordinem, ossia secondo le norme del diritto vigente e secondo i riti in uso presso i tribunali pubblici. Le sue decisioni erano, inoltre, appellabili.
Arbitrator era colui che doveva definire una controversia civile secondo equità (ex bono et aequo) e senza l’osservanza dello ius strictum.
Altra importante distinzione fu fatta dalla legislazione e dalla giurisprudenza tra (—) volontario e necessario. Il primo trova origine esclusivamente dalla volontà delle parti ed in genere poteva riguardare qualsiasi controversia civile (ad esclusione delle liti matrimoniali, delle questioni di status personale, delle controversie contro il fisco ed in materia feudale).
Il secondo era quello imposto alle parti dal diritto positivo (e riguardava soprattutto le controversie familiari).
Verso la fine del secolo XIV la legislazione e la giurisprudenza cominciarono ad attribuire alla decisione dell’arbitro la stessa efficacia giuridica della sentenza pronunciata da un tribunale pubblico. Infatti, il giudice pubblico al quale veniva sottoposto il lodo arbitrale per l’attribuzione della sua esecutorietà, doveva limitarsi a renderlo esecutivo, senza dover riesaminare il fondamento del diritto delle parti o la giustezza della sentenza arbitrale. In tal modo l’(—) assunse un carattere processuale, quindi pubblico.
Ciò comportò il conferimento agli arbitri di alcuni poteri propri dei magistrati pubblici: il potere di pronunciare sentenze interlocutorie, di disporre la prova di un fatto controverso, di ascoltare i testimoni prodotti dalle parti e di ricevere il loro giuramento.
Poiché attraverso l’(—) i cittadini avevano la possibilità di sottrarsi all’esercizio della giurisdizione statuale, l’istituto non fu considerato con benevolenza nell’età moderna dagli Stati accentratori (Spagna, Francia, Inghilterra).
Ad esempio, le Costituzioni piemontesi [vedi] del Settecento furono spiccatamente contrarie ad esso. L’(—) necessario non fu accolto nelle codificazioni italiane post-napoleoniche ed il primo codice di procedura civile del Regno d’Italia previde solo l’(—) volontario.