Lacan, Jacques

Lacan, Jacques
Psichiatra e psicoanalista francese (Parigi, 1901 - 1981). Legato sino al 1964 alla comunità psicoanalitica internazionale, se ne distaccò per fondare una propria scuola, l'École freudienne de Paris, sciolta pochi mesi prima della morte, ed animò con il suo insegnamento (oltre venti volumi di seminari, in parte ancora inediti) la cultura francese ed europea. La novità e il fascino del suo discorso, aggiunti alla difficoltà estrema dei suoi scritti e delle sue lezioni, ne hanno fatto una figura controversa ma preminente per una riformulazione della psicoanalisi post-freudiana, dalle vaste implicazioni cliniche e filosofiche.
1) Linguaggio e inconscio. Il nucleo fondante del suo pensiero, oltre che nei seminari, è esposto nei due volumi degli Scritti (1966). Il punto di partenza di L. è l'idea dell'inconscio strutturato come un linguaggio. Non cioè come regno dell'istinto, luogo delle pulsioni irrazionali e primitive su cui dovrebbe intervenire la funzione mediatrice dell'Io, secondo il dettame della psicoanalisi classica. L'inconscio piuttosto secondo L. obbedisce a leggi rigorose e autonome, ad una logica stringente e nient'affatto caotica. Attraverso i lapsus, gli atti mancati, i sintomi, le falle del discorso cosciente (come già Freud aveva intuito) qualcosa parla (ça parle scrive L., dove il ça francese traduce l'Es freudiano). Ma questo elemento impersonale esprime proprio una logica dell'inconscio che si manifesta con procedimenti analoghi a quelli linguistici. La differenza tra Freud e me — ebbe a dire L. — è solo che lui non poteva conoscere la linguistica. L'intuizione di Freud che dietro alle formazioni di compromesso (i sintomi) dell'inconscio si potesse nascondere un linguaggio articolato, viene riattivata da L. con l'ausilio degli strumenti offerti dalla linguistica moderna (specie quella di Saussure e Jakobson). I meccanismi che Freud aveva definito come condensazione e spostamento (le due forme principali del lavoro onirico) hanno per L. un equivalente linguistico nella metafora e nella metonimia (gli assi fondamentali della lingua secondo Jakobson). Tutto il lavoro del sogno, e quindi dell'inconscio, diviene pertanto leggibile come un lavoro linguistico. A partire dall'identificazione di inconscio e linguaggio, si chiarisce l'assunzione del concetto di struttura operata da L. Se l'inconscio è una sistema linguistico e se il sistema (come lo strutturalismo antropologico ha mostrato) per sua natura ci trascende, poiché vi siamo immersi dalla nascita, L. può sostenere che non è il soggetto a produrre il linguaggio, ma questo a produrre il soggetto: l'uomo è propriamente in preda al linguaggio, è un effetto del linguaggio. E come tale è in preda all'inconscio. L'Io stesso per L. è in un certo senso un sintomo, una produzione inconscia. Questa tesi dell'inconscio strutturato come un linguaggio non si capirebbe a fondo se non la si integrasse con un'altra definizione capitale: l'inconscio è il discorso dell'Altro. Il termine Altro (con l'iniziale maiuscola) viene introdotto per indicare il luogo di dispiegamento della parola cioè proprio il campo in cui si esercita il potere del linguaggio/inconscio sul soggetto. Questo Altro non è affatto il nostro simile o un altro soggetto. È in un certo senso l'alterità assoluta che linguaggio e inconscio rappresentano per noi. Essi ci mettono di fronte continuamente alla nostra dipendenza da leggi di cui non siamo padroni, da una struttura che ci determina sin dalla nascita e che L. chiama ordine Simbolico. Il bambino, prima ancora che dalla propria madre, nasce nel regno dell'Altro e da questo dipende. Viene alla luce già immerso nelle leggi del Simbolico, che sono leggi culturali, storico/sociali, familiari. La soggettività non è affatto un che di dato; al contrario, sembra costituirsi attraverso alcune tappe fondamentali che implicano un rapporto spesso drammatico con l'alterità che ci predetermina. La prima e più sconcertante ipotesi di L. sul cammino della soggettivazione compiuto dall'individuo, riguarda il cosiddetto stadio dello specchio.
2) Il taglio del soggetto: mancanza, desiderio legge. Con questa espressione (introdotta nel 1936 al XIV Congresso Internazionale di Psicoanalisi) L. descrive l'origine dell'Io. Un bambino tra i sei e i diciotto mesi posto dinanzi allo specchio, esperisce un evento fondamentale: si riconosce. Ma si tratta di processo esclusivamente immaginario. È come se il bambino — ancora immerso in una fase di disunità corporea, di frammentazione, di non coordinazione motoria — anticipasse attraverso l'immagine dello specchio un'unità di sé che non possiede. È come se potesse percepirsi solo guardando un altro, solo osservando la propria immagine allo specchio. La prima identificazione del nostro Io, la prima forma di autocoscienza è pertanto assolutamente immaginaria. L'esito è che il soggetto nasce diviso, tagliato; dice L.: l'Io (in francese Je) è sin dall'inizio un altro, un Me (Moi) allo specchio. Nascendo già altro da sé, già alienato, il bimbo nasce bisognoso, desiderante. La prima figura fondamentale che in questo status di mancanza gli si presenta è, ovviamente, la madre. In lui il soggetto incontra realmente l'Altro, percepito come via d'inserimento nel mondo del Simbolico. Ma il cammino verso la costituzione di una soggettività piena e integrata si rivela strutturalmente impossibile. L. distingue a questo proposito bisogno e desiderio. Il primo è uno stato fisiologico (fame, sete) che si esprime attraverso la domanda continua rivolta dal bimbo all'Altro materno. Segnato dalla necessità della domanda e della richiesta, il soggetto si scopre dipendente dall'ordine dell'Altro. Il bisogno è sempre un messaggio/appello all'Altro. Il desiderio va oltre: rappresenta infatti l'eccedenza della domanda, essendone in qualche modo l'origine stessa. Proprio in quanto nato da un taglio e da una divisione, il soggetto desidera. Irriducibile al semplice bisogno, il desiderio è pertanto per L. sempre desiderio dell'Altro, a molti livelli: desiderio di essere riconosciuto come unico e insostituibile, desiderio di essere amato, desiderio che l'altro ci desideri. Questa struttura di rimando non trova argini. Il desiderio, sostiene L. mutuando ancora i termini dalla linguistica di Jakobson, possiede la struttura retorica della metonimia (parte per il tutto: bevo un bicchiere, leggo Dante). Esso scivola per sua natura da un significante all'altro, senza poter cogliere l'oggetto, in una catena illimitata. Al fondo del desiderio (e dunque dell'amore) non si dà appagamento: la mancanza non sarà mai colmata; si tratta, infatti, di una strutturale mancanza a essere (mnque à tre). A questa negatività costitutiva il tardo L. darà il nome di piccolo oggetto a, ad indicare il buco del desiderio, la crepa nell'ordine simbolico, l'oggetto perduto sin dall'origine, cioè l'impossibilità definitiva per l'individuo di ricongiungersi con la propria madre. E, tuttavia, il desiderio come esclusiva domanda d'amore è l'unica chance per vivere autenticamente la propria soggettività scissa. È qui che si inserisce la questione dell'Edipo riletta da L., ed è a questo livello che viene introdotta l'importante nozione di Nome-del-Padre. La madre non deve confondere bisogno e desiderio, non deve colmare di oggetti o cose reali il bambino che chiede principalmente amore e riconoscimento. Piuttosto, deve inserirlo nella catena desiderante, in quell'ordine del desiderio che è analogo all'ordine della mancanza. Il bambino dovrà così comprendere di non esser l'unico oggetto di desiderio della propria madre. Esiste, infatti, un terzo soggetto nella sua relazione con la madre: il Padre e la sua Legge. La figura paterna (il suo Nome) ha la funzione di fondare paradossalmente il desiderio nella sua mancanza. Per questo L. definisce il divieto imposto alle aspettative del bambino come Significante fondamentale, come centro dell'inconscio. Se il bambino comprende la Legge del Padre che gli interdice il possesso materno, potrà entrare senza traumi nel mondo della mancanza che gli è connaturata: accederà di fatto al Simbolico, alle leggi reali della società scoprendosi libero soggetto desiderante. Se al contrario non lo comprende, ed elimina il Significante paterno (con un procedimento definito forclusione) il bambino rischia lo scatenamento della psicosi (definita come sgretolamento del Simbolico) situandosi pericolosamente a livello del caos e dell'assenza di Legge tipici del delirio. Il complesso percorso intellettuale e clinico di L. sembra segnare un punto di non ritorno nell'azione di decentramento del soggetto: chiuso tra inconscio e linguaggio, tra desiderio e sintomo, l'individuo può raggiungere solo una verità parziale e squilibrante (l'analisi lacaniana, non a caso, non propone alcuna guarigione nel senso tradizionale del termine) quale emerge dai buchi della coscienza e dalle scissioni dell'Io.