Comunicazione

Comunicazione
Dal latino communicare (far comune), tale concetto rinvia a fenomeni vari e numerosi ed assume spesso significati così generali da presentare non facili problemi di definizione in sede scientifica. In effetti, tutta la fenomenologia della vita relazionale e sociale potrebbe essere vista in termini di c., dalla prima relazione madre-figlio alla vastissima gamma dei fenomeni internazionali tra le persone, i gruppi, le istruzioni, le organizzazioni, senza escludere le forme di relazione tra organismi viventi e ambiente, sia ancora le relazioni che collegano parti di sistemi artificiali nei più disparati ambiti tecnologici.
1) Struttura della comunicazione. L'idea di c. è implicita nel dialogo tra due persone, ma anche nelle relazioni tra due servomeccanismi: il concetto di c. è pervasivamente utilizzato nell'ambito delle relazioni umane e nel più generale contesto del sistema sociale, così come nel mondo dei sistemi tecnologici dai più semplici ai più complessi. Con tale premessa, avendo a mente soprattutto gli aspetti sociali ed umani della c., potremmo definirla come una trasmissione di informazioni codificate da una sorgente (o emittente) a un destinatario (o ricevente) attraverso un canale (o mezzo).
VEDI SCHEMA
Lo schema mostra come la struttura del processo di c. possa essere rappresentata da due poli (sorgente e destinatario), i quali dispongono di meccanismi di trasmissione e di ricezione e della capacità di compiere operazioni di codificazione e di decodificazione dell'informazione nell'ambito di segnali il cui insieme costituisce il messaggio: questo viene trasmesso attraverso un canale. Nel nostro schema abbiamo collegato i meccanismi di trasmissione-ricezione con il canale allo scopo di sottolinearne la stretta interdipendenza: in effetti se intendiamo con canale il mezzo fisico attraverso cui passa una trasmissione è implicito che la sua natura sia in stretta dipendenza dagli apparati fisici di trasmissione e di ricezione. Si può così parlare di un canale verbale-uditivo nel caso di informazioni passate attraverso la voce umana, di un canale gestuale nel caso di informazioni espresse a gesti, o anche di canali telegrafici, di canali radiofonici, di canali costituiti da mezzi a stampa e così via (in realtà il concetto di canale è spesso usato in modo non univoco e solo a livello dei meccanismi di trasmissione-ricezione acquista un significato più chiaro). Le c. umane utilizzano spesso contemporaneamente più canali, e questo complica ovviamente l'analisi del processo di c., della qualità e della quantità dell'informazione etc. Occorre aggiungere che meccanismi di trasmissione-ricezione e canale costituiscono degli elementi che impongono precise caratteristiche e vari limiti alla c. e, laddove possibile, scelte di modalità comunicative diverse in relazione ai tipi di canali disponibili. Se è vero che varie limitazioni alla c. sono poste dalle caratteristiche della ricezione e della decodificazione è altrettante vero che anche la capacità, l'immediatezza etc. del canale pongono problemi in tal senso. I rumori interferenti indicati nello schema rappresentano i disturbi che possono interferire nel processo di c.: in pratica, non esiste trasmissione di informazione che non risenta di disturbi dipendenti dal mezzo o dei meccanismi interessati. La loro analisi costituisce un capitolo importante in ogni studio sulla c. Come indicato dalle frecce, il flusso è interamente orientato dalla sorgente al destinatario: ma la linea di direzione contraria (in basso) vale ad indicare coma la c. implichi anche un'attività da parte del destinatario, che indichiamo come reazione di ritorno (feedback). L'ulteriore linea che racchiude lo schema vale ad indicare che ogni processo di c. va visto non isolatamente ma inserito nel contesto in cui avviene, ossia nell'insieme delle caratteristiche della situazione (sociale, fisica etc.) a tutti i livelli di significato che coinvolgono sorgente e destinatario. Lo schema proposto può adattarsi a c. di diversa natura e complessità, nel cui ambito i poli, i meccanismi, le operazioni possono assumere caratteristiche assai differenti. Ogni elemento citato nello schema porterebbe con sé un ampio discorso in grado di coinvolgere diversi ambiti disciplinari, dalla fisica alla fisiologia, alla psicologia, alla sociologia, alla semiologia etc. Ci limiteremo qui a toccare alcuni temi più importanti, riferendoci essenzialmente ad aspetti della c. implicanti l'essere umano nella vita di relazione sociale. Una prima precisazione va condotta sul problema del codice. Ci si può chiedere, in effetti, perché limitare la nostra definizione alla trasmissione di informazioni codificate (cioè consistenti in segni che, organizzati nell'ambito di un sistema, rappresentano qualcosa di diverso da se stessi: oggetti o idee) quando è evidente che l'ambiente è percorso in continuazione da flussi di informazione anche non codificata che ci raggiungono. Come si è detto in precedenza, tutta la fenomenologia dell'ambiente relazionale e sociale può essere vista come c. In altri termini, tutto ciò che arriva agli organi sensoriali di un organismo (o agli apparati di registrazione di qualsiasi sistema organizzato) può essere considerato come un dato informativo che l'organismo riceve ed elabora: ma questa concezione può permettere ben pochi progressi nello studio dei processi di c. È dunque necessario distinguere tra elaborazione come operazione cognitiva di interpretazione ed organizzazione dell'informazione, e c. come passaggio di messaggi trascritti in un codice comune alla sorgente e al ricevente-destinatario, ossia tra l'operazione isolata di un organismo che decifra i dati della sua esperienza e il processo interazionale tra due (o più organismi) in possesso di un codice comune.
2) L'intenzionalità. Strettamente collegato al problema del codice è quello dell'intenzionalità della c. In realtà il concetto di intenzionalità dovrebbe automaticamente essere comportato da quello di codice e da quello di c., se diamo per implicito che nell'ambito di un processo comunicativo interpersonale l'emittente intenda trasmettere consapevolmente un segnale al destinatario, sapendo che questi può dargli un significato. Tuttavia l'attenzione per gli aspetti comunicativi del comportamento paraverbale e gestuale, lo studio dei comportamenti segnici nel mondo animale (segnali di pericolo, di corteggiamento, di delimitazione territoriale etc.) in sintonia con il crescente spazio che i processi non coscienti occupano nel pensiero psicologico contemporaneo (non solo in ordine a tesi psicoanalitiche, ma anche cognitiviste) rendono più problematica la questione, sino a far pensare ad una specie di continuum tra comportamento informativo e comportamento comunicativo, cioè tra processi connessi con la c. quale l'abbiamo definita e più generali processi di elaborazione dell'informazione. Questo aspetto risulterà meglio evidenziato inserendo la ricezione e la decodificazione (questa come operazione atta a tradurre i segnali in significati) nel più generale sistema di comprensione delle intenzioni dell'emittente, degli scopi che hanno presieduto all'invio del suo messaggio e che, con il messaggio, si propone di ottenere. Non sempre, in realtà, un'esatta decodificazione dei segnali da parte del ricevente porta quest'ultimo (inteso come destinatario) ad un'esatta comprensione degli scopi che la sorgente si proponeva, soprattutto quando sorgente e destinatario siano rappresentati da esseri umani o comunque gestiti da esseri umani. L'esperienza quotidiana offre molti esempi di questa difficoltà di comprensione, che può essere imputabile alle caratteristiche del messaggio (ottenuto ormai di molti studi diretti a rendere i testi comunicati chiari, comprensibili, poco ambigui etc.) oppure anche alle caratteristiche sensoriali dei meccanismi trasmittenti e soprattutto riceventi (come è noto l'essere umano è in grado di ricevere soltanto un limitato numero di segnali contemporaneamente e dopo un certo tempo le sue capacità di ricezione diminuiscono), nonché all'attenzione che presiede alla ricezione in dipendenza del suo grado di focalizzazione e di diffusione (donde lo studio anche di segnali atti a risvegliare e tener desta e focalizzata l'attenzione). La difficoltà di comprensione di una c. può esse inoltre dovuta alle caratteristiche dell'attività mentale che presiede alle operazioni di elaborazione, soprattutto sotto il profilo delle sintesi, riduzioni, semplificazioni, categorizzazioni etc. operate dalla mente umana nell'organizzazione del materiale ricevuto. Molto spesso, tuttavia, le difficoltà di comprensione sono dovute non solo ai fattori sopra citati ma alla pluralità di significati profondi (in termini di scopi e di intenzioni) che un messaggio può ricoprire in dipendenza sia dei fattori personali intrinseci alla sorgente o al destinatario, sia della situazione globale in cui è inserito. Se questo fatto è riscontrabile nella normale c. colloquiale tra due persone, tanto più lo è al livello di comunicazione di massa, soprattutto se mediata da complessi canali organizzati di trasmissione (ad es.: articoli di giornale, discorsi politici, reti di comunicazione aziendale e così via). Su un versante quindi occorre ben studiare i fattori specifici (potremmo dire tecnici nell'ambito di discipline di vario tipo) legati al messaggio, agli organi trasmittenti-riceventi, alle operazioni mentali di decodificazione e di significazione dei messaggi; mentre su un altro versante occorre costantemente tener conto delle variabili assai meno facili a definirsi comportate dall'insieme di atteggiamenti, aspettative, scopi, motivazioni etc. delle persone coinvolte nella comunicazione nonché del contesto in cui la comunicazione avviene (tipologie socio-culturali, persone, eventi in corso, ruoli in atto, situazioni aperte o sottostanti di potere e così via).
3) Le funzioni della comunicazione. Questi aspetti ci richiamano alle funzioni della c., in particolare, le più importanti sono: a) la comunicazione referenziale, che indica uno scambio di informazioni tra due poli su un oggetto-referente; b) la comunicazione espressiva, diretta ad esprimere qualcosa da un polo all'altro; c) la comunicazione di controllo e regolazione delle condotte in atto, delle azioni e soprattutto dell'interazione in corso. In realtà non si tratta di punti di vista univoci e, in definitiva, ogni possibile elenco di funzioni finirebbe con l'essere troppo esteso o troppo ristretto e suscettibile di ottiche diverse. Quello che occorre comunque sottolineare è il fatto che la c., al di là di ogni intrinseca funzione specifica, ha sempre una generale funzione di cambiamento nella misura in cui ogni evento comunicativo modifica qualcosa nell'ambito del sistema di eventi, di oggetti, di idee in cui avviene. La forma più palese in cui questo fondamentale aspetto viene colto e studiato è quella che vede la c. come un essenziale strumento di influenza sociale, non solo ai più specifici livelli di c. persuasiva (studi di Hovland e della Scuola di Yale) e di c. come contratto fondato su una posta in gioco, ma anche ai più sottili e sfumati livelli dell'interazione di tipo intimo, affettivo e così via. Ovviamente il concetto di influenza va inteso qui in senso molto lato, come meccanismo agente in modo pervasivo in tutta la vita sociale. Le ricerche in questo settore hanno messo in luce aspetti assai fini delle strategie di c. in concomitanza con tipi di messaggi, modalità di trasmissione, fattori connessi con le posizioni sociali della sorgente e del ricevente. Altri autori (Scuola sovietica e psicologia critica), maggiormente legati al concetto di lavoro e di attività, hanno sottolineato la funzione della c. nella determinazione e regolazione di condotte di cooperazione sociale, in un'ottica che privilegia lo sforzo comune, di gruppo, la cooperazione in vista di uno scopo collettivo. Ai due poli dell'influenza o della cooperazione (che nell'ottica psicosociale non sono poi così escludentisti ma anzi compenetrati nelle condotte collettive) la c. evidenzia così i suoi essenziali caratteri di processo sociale: un processo che è alla base stessa della vita sociale e di ogni forma di relazione ma che, allo stesso tempo, è condizionato in ogni suo aspetto dall'insieme dei rapporti sociali, dalle regole, dai ruoli, dalla cultura, dalle condizioni materiali di vita.
4) Sviluppo della competenza comunicativa umana. Avviene nei primi anni di vita attraverso l'apprendimento delle regole d'uso del linguaggio verbale dettate dall'ambiente circostante. Progressivamente, il repertorio comunicativo si amplia attraverso l'integrazione del linguaggio non verbale e del lessico. Il linguaggio consente al bambino di stabilire una c. più efficace. La progressiva acquisizione dell'abilità linguistica segna l'approdo ad un sistema di c. caratterizzato dall'uso interdipendente dei canali verbali e gestuali. In uno studio del 1993, Volterra ha tracciato il profilo evolutivo dello sviluppo comunicativo del bambino il quale, a un anno di età, utilizza in prevalenza il repertorio gestuale; a sedici mesi si avvale sia di gesti che di parole; successivamente, il rapido incremento del vocabolario riduce il ricorso alla gestualità: le due modalità comunicative tendono a divergere dopo uno sviluppo parallelo. Un importante mezzo di segnalazione che il bambino utilizza è il sorriso, espresso tramite il canale visivo-cinesico. Convenzionalmente, l'atto del sorridere rappresenta l'espressione mimata di un affetto positivo che veicola felicità, piacere, tenerezza e favorisce la relazione interpersonale: il sorriso del bambino, richiamando l'attenzione della madre e provocandone la reazione amorevole, innesca l'approccio sociale. Nelle prime settimane di vita, il neonato attraversa una fase di sorriso riflesso, prodotto occasionalmente: il bambino sorride istintivamente, stimolato dalle variazioni di luminosità nel suo campo visivo. Tuttavia, l'adulto interpreta il comportamento del lattante secondo un codice convenzionale che individua nel sorriso l'espressione visivo-cinesica di uno stato emozionale positivo. All'età di cinque-sei settimane di vita subentra la fase del sorriso sociale. A quest'età, il bambino che trascorre in uno stato di veglia attiva l'80% del tempo in cui non dorme, possiede un maggiore controllo dei movimenti oculari che gli consentono di seguire bersagli visivi in lento movimento e stabilire un contatto faccia a faccia con l'interlocutore. In questa fase il sorriso esogeno è provocato da elementi visivi o acustici come il volto, la voce e gli occhi delle persone. Gli stimoli facciali fungono, dunque, da fattori sociali scatenanti. Gli studi etologici sull'orientamento hanno rilevato che la vista degli occhi attiva nel neonato la risposta del sorriso: a provocarlo sono sufficienti due punti disegnati su un cartoncino ovale bianco. Il progressivo processo di apprendimento segna l'approdo, al terzo mese di vita circa, ad una fase di sorriso sociale selettivo. Il bambino è tendenzialmente attratto dalle persone familiari e il suo sorriso è provocato dalla voce e dal volto del genitore, o di chi si prende cura di lui. Anche il pianto svolge una fondamentale funzione adattativo-informativa, fornendo una serie diversificata di segnali, e presenta una varietà di forme dotate di uno specifico andamento ritmico. Nelle prime fasi di vita, il neonato piange stimolato soprattutto da fattori di natura organica. Successivamente, il bambino ne comprende il valore comunicativo utilizzandolo per richiamare, l'attenzione della madre e intensificare il legame di attaccamento. Gli elementi inibitori sono rappresentati dalla suzione, dal contatto fisico, dall'oscillazione, dalla visione di un volto umano, dalla voce. Wolff (1969) ha individuato tre modelli: il pianto di base, il pianto di rabbia, il pianto di dolore. Il pianto di base è stimolato dalla fame ed è caratterizzato da un avvio lento e aritmico, che diviene successivamente più intenso e ritmato. Il pianto per rabbia presenta un andamento ritmico simile al pianto per fame, ma se ne distingue per un suono più squillante. Il pianto di dolore si manifesta inizialmente con un grido cui seguono alternativamente fasi di inspirazioni affannose e singhiozzi espiratori. Un altro segnale sociale volto a stabilire un'interazione con l'ambiente circostante è la vocalizzazione. Il bambino ne scopre il potere comunicativo e la capacità di influenzare il comportamento materno non prima delle quattro settimane di vita. La vocalizzazione presenta uno sviluppo progressivo: nelle prime tre settimane, si manifestano soltanto suoni riflessi (gemiti, grida) e vegetativi (sibili, starnuti, colpi di tosse); segue una fase di suoni (strilli, gorgoglii, suoni vocalici), stimolati dalle sollecitazioni dell'adulto, che riflettono uno stato di calma e benessere. Verso i due-tre mesi il bambino si impegna con il genitore in uno scambio vocale caratterizzato dall'alternanza di sequenze prolungate di suoni. Infatti, nel periodo compreso fra i due e i sei mesi d'età compaiono e si definiscono i suoni vocalici, che il bambino utilizza nell'incontro vis a vis con una persona familiare, avviando una sorta di protoconversazione. Intorno al sesto-settimo mese di vita, periodo in cui compaiono i suoni consonantici, inizia la lallazione canonica. In questa fase il bambino è in grado di produrre sillabe caratterizzate dalla sequenza consonante-vocale (CV, CVCV). Il suono reiterato delle sequenze sillabiche è definito lallazione reduplicata. Questo balbettio raddoppiato induce spesso il genitore ad un'errata interpretazione che provoca confusione nelle sequenze consonante + vocale con le parole, per cui, ad esempio, la ripetizione della sequenza ma diventa facilmente mamma. A questo stadio dello sviluppo il bambino impara a riconoscere e vocalizzare i suoni della lingua materna, perdendo la capacità iniziale di produrre molteplici contrasti fonetici. Verso i dieci-dodici mesi è in grado di elaborare strutture sillabiche complesse. Questa viene definita fase della lallazione variata: infatti, i suoni sono simili a parole di due sillabe che assumono un significato all'interno di un contesto specifico. Ben presto il bambino diviene capace di ripetere ogni parola di due sillabe; quelle composte da tre o più sillabe assumono una forma fonetica idiosincratica (ad es.: pizzica diventa picca), oppure subiscono l'omissione delle sillabe che presentano l'accento (caramella diventa mella). Mentre i suoni vocalici raggiungono rapidamente una maturità articolatoria, quelli consonantici vengono articolati correttamente in fasi diverse. I bambini che imparano l'italiano come lingua materna acquisiscono per prime le nasali (m) e (n), le occlusive bilabiali (p) e (b) e le apicodentali (t) e (d); successivamente articolano le occlusive velari (k) e (g) e le fricative labiodentali (f) e (v); la r e la s vengono pronunciate solo verso i quattro-cinque anni. Più difficili da ripetere sono i dittonghi, di cui i bambini tendono ad omettere una delle vocali (ad es.: Paolo diventa Pallo). Lo sviluppo fonologico coincide con quello lessicale e grammaticale: la difficoltà di pronunciare alcuni suoni determina una maggiore lentezza nella produzione di alcune forme lessicali. In una successiva fase di apprendimento il bambino userà la lallazione finalizzandola ad uno scopo; apprenderà, così, l'importanza del suo comportamento e l'influenza che è in grado di esercitare sull'interlocutore adulto. Un altro mezzo di segnalazione fondamentale per l'interazione sociale è la fissazione dello sguardo. Nella prima fase dello sviluppo il diverso orientamento dello sguardo è determinato dalle variazioni di luminosità: il volto umano, caratterizzato da movimenti lineari e di contrasto, costituisce un forte stimolo. Tuttavia, fino ai quattro mesi di vita il bambino non è in grado di distinguere il volto di una persona specifica. Tale capacità si sviluppa successivamente, divenendo uno dei principali stimoli del processo di attaccamento. Il gesto del sollevare le braccia, sollecitato dal desiderio di avvicinarsi alla madre, può manifestarsi, per la prima volta, tra la quattordicesima e la trentasettesima settimana di vita. I gesti comunicativi sono quelle azioni che il bambino mette in atto, nell'ultimo trimestre del primo anno di vita (9-12 mesi), per indicare, mostrare, offrire. Si tratta dei cosiddetti gesti performativi o deittici che, coinvolgendo oggetti/eventi esterni presenti in uno specifico contesto d'azione, contengono un'intenzione comunicativa che mira a comunicare a un'altra persona l'obiettivo da raggiungere. Per converso, l'esplorazione dei contorni di una figura con l'indice è un comportamento gestuale privo di intenzioni comunicative. Il gesto performativo presenta, diversamente, una struttura &lquot;triadica': è un segnale distale (comunicato cioè a distanza) che richiede il contatto visivo con l'interlocutore ed implica un'alternanza di sguardi tra l'interlocutore e l'oggetto esterno. Il gesto deittico ad esempio, quello di indicare con il dito — è diffuso in tutte le culture ed è oggetto di studi approfonditi dalla fine dell'Ottocento. Il gesto di indicare per attirare l'attenzione di qualcuno su un oggetto o evento dell'ambiente circostante, si manifesta tra gli otto e i sedici mesi: il suo apprendimento consente al bambino di assumere un ruolo più attivo nella c. L'indicare è accompagnato dallo sguardo rivolto all'interlocutore. All'età di dodici mesi, il 40% delle indicazioni è sincronizzato al contatto visivo con la figura materna. Prima di allora il bambino guarda il suo interlocutore solo quando questi ha nelle mani l'oggetto che suscita un suo interesse. Il controllo visivo, esercitato sull'interlocutore, segue un processo evolutivo: a dodici mesi il bambino lo guarda dopo aver indicato l'oggetto di interesse; a sedici mesi richiama con lo sguardo l'interlocutore prima di compiere il gesto. Gradualmente, impara a comprendere anche il gesto di indicare altre figure. Fino all'età di nove mesi, tuttavia, il bambino non comprende il gesto di indicare compiuto dalla madre e guarda contemporaneamente il dito e ciò che ha indicato. Verso i dodici mesi è attratto dagli oggetti presenti nel suo campo visivo, mentre all'età di diciotto mesi è in grado di orientarsi verso gli oggetti presenti alle sue spalle. Non vi è accordo tra gli studiosi su quali siano le relazioni esistenti tra produzione e comprensione del gesto deittico: alcuni bambini sono in grado di comprendere l'indicazione prima di avere la capacità di riprodurla, altri invece apprendono il gesto prima di comprenderlo. Il gesto di indicare può essere utilizzato con due diversi intenti comunicativi, che si manifestano in soggetti di età compresa fra gli undici e i sedici mesi. Le due intenzioni sono forme diverse di uno stesso meccanismo cognitivo che permette di stabilire, da un lato, una distinzione fra mezzi e scopi e, dall'altro, di utilizzare intenzionalmente diversi strumenti per il raggiungimento dell'obiettivo. L'azione di indicare può essere, infatti, utilizzata per ottenere un oggetto che suscita interesse (intenzione richiestiva) o per richiamare l'attenzione di qualcuno (intenzione dichiarativa). Entrambe le intenzioni presentano due diversi profili cognitivi. L'indicazione richiestiva nasce dall'intento del bambino di influenzare il comportamento altrui per raggiungere uno scopo; l'intenzione dichiarativa consente di influire sul comportamento psicologico dell'altro, stimolando il suo interesse o la sua condivisione su qualche aspetto della realtà. Verso i dodici mesi compare il gesto cosiddetto referenziale o rappresentativo, veicolo di significati che rimangono invariati col mutare del contesto. Si tratta di gesti compiuti per indicare oggetti, rappresentare eventi, compiere azioni come muovere le mani per simulare l'uccello, aprire e chiudere le dita in segno di saluto, scuotere la testa per negare. L'apprendimento di questi movimenti gestuali avviene imitando il comportamento dell'adulto familiare nelle fasi di gioco. Gradualmente, questo tipo di gestualità perde le sue caratteristiche ludiche per assumerne altre a chiaro scopo comunicativo. Il bambino comprende sempre più le possibilità di influenzare il comportamento dell'adulto attraverso la propria gestualità. Alcuni studiosi hanno sottolineato l'importanza del gesto di indicare nell'acquisizione del linguaggio, ipotizzando un rapporto di continuità tra c. gestuale e verbale. Per Werner e Kaplan il gesto di indicare implica il riferimento ad un oggetto e la sua rappresentazione simbolica; per Bruner (1983), invece, consente di stabilire un comune focus di attenzione tra due persone. In ogni caso, costituisce un atto sociale attraverso il quale i partecipanti condividono un argomento. Numerosi studi hanno ipotizzato l'esistenza di una relazione tra questo gesto a 12-16 mesi di età e la nascita del repertorio verbale; e, a 20 mesi di età, con l'ampiezza del vocabolario. Certo è che questo tipo di gestualità favorisce lo sviluppo linguistico: i bambini che ne fanno maggiormente uso risultano, a 20 mesi, linguisticamente evoluti. Da uno studio di Desrochers (1995) è risultato, poi, che i bambini che avevano imparato ad indicare prima dei 12 mesi raggiungevano un punteggio più alto nelle prove volte ad accertare le capacità linguistiche. La ricerca ha rilevato, inoltre, che il bambino che ha precocemente appreso l'uso dell'indicazione per orientare l'attenzione dell'interlocutore raggiunge, all'età di due anni, un livello avanzato di sviluppo linguistico. Secondo alcuni (Bates et al., 1979), il legame tra comunicazione gestuale e linguaggio scaturisce dalla comune capacità di comunicare tramite segnali convenzionali. Per Petitto (1988), invece, l'indicazione favorisce lo scambio verbale e sociale tra il bambino e il suo interlocutore, promuovendo l'acquisizione del linguaggio. L'atto gestuale innesca il commento dell'adulto che fornisce il nome dell'oggetto o formula una domanda. Di qui l'associazione tra parole e oggetti. La c. intenzionale appare intorno al 9-10 mese di vita. Nella fase precedente a tale periodo, i segnali ad essa riconducibili sono rappresentati dal pianto, dal sorriso, dai vocalizzi. Successivamente, il bambino elabora i comportamenti necessari al raggiungimento dei propri scopi. Per alcuni studiosi come Camaioni, Volterra, Bates, Golinkoff e Sugarman, l'intenzione comunicativa si sviluppa quando il bambino riconosce gli esseri umani quali agenti autonomi in grado di rispondere alle proprie richieste. In tal senso, l'adulto diviene uno strumento necessario all'ottenimento dell'oggetto desiderato. Infatti, il bambino che compie una richiesta cerca di influenzare il comportamento dell'adulto per il raggiungimento di un obiettivo. L'intenzione richiestivi è un'aspettativa del bambino relativa alle capacità della persona di rispondere ai suoi scopi. Per effettuare una richiesta il bambino deve possedere alcune abilità che gli permettano di coordinare l'orientamento verso un oggetto/evento esterno, di dirigere l'attenzione verso un'altra persona, di riconoscere le persone come agenti autonomi e, infine, di utilizzare segnali (sorriso, gesti, vocalizzi) per incidere a distanza sul comportamento dell'altra persona. Lo sviluppo dell'intenzione comunicativa di tipo dichiarativo lo si colloca ad uno stadio più avanzato dello sviluppo cognitivo del bambino. Il bambino che compie una dichiarazione richiama l'attenzione di una persona per influenzarne lo stato interno. In questo caso, il bambino elabora un'intenzione comunicativa in modo da rappresentarsi l'interlocutore come un soggetto in grado di formulare intenzioni e di comprendere quelle altrui. Questa intenzione richiede all'interlocutore capacità psicologiche avanzate: deve mostrare, ad esempio, interesse per eventi esterni. Piaget colloca entrambe le sequenze di tipo richiestivo e dichiarativo nel V stadio dello sviluppo sensomotorio. La partecipazione autentica all'interazione relazionale del bambino avverrà quando sarà in grado di assumere, alternativamente, un ruolo attivo e un ruolo passivo nel rapporto sociale. La capacità di alternare i ruoli (turn-taking) è una delle regole fondamentali della c. Tra i 9 e i 12 mesi tra il bambino e il suo interlocutore si instaura un dialogo intenzionale e bilaterale, che implica il coinvolgimento delle parti. Il bambino diviene consapevole che il suo comportamento ha un valore comunicativo e può essere utilizzato per ottenere i risultati desiderati. In età prescolare i bambini sono in grado di utilizzare varie abilità comunicative, adattando il proprio linguaggio ai diversi tipi di interlocutore, valutandone le caratteristiche distintive e producendo messaggi appropriati. A 2 anni riescono ad adattarsi ai diversi ascoltatori del contesto familiare: parlano in modo differente a un fratello o ad una sorella rispetto ad un genitore. Questa tesi contrasta con l'ipotesi dell'egocentrismo formulata da Piaget (1923) per spiegare l'inefficacia comunicativa dell'età prescolare. Diversi studi hanno rilevato che, già a 3 anni, i bambini utilizzano il linguaggio in modo socialmente adatto: infatti, parlano per farsi ascoltare e si aspettano dall'interlocutore risposte appropriate di tipo verbale o non verbale. Una c. verbale efficace implica la capacità di farsi capire (ruolo di parlante) e di interpretare correttamente il significato del messaggio (ruolo di ascoltatore). Il bambino di età prescolare che riceve un messaggio ambiguo dal punto di vista referenziale (ad es.: prendi quello rosso in un contesto dove si trovano due oggetti rossi, uno rotondo ed uno quadrato) può mostrare segni di incertezza ed esitazione, ma difficilmente chiederà chiarimenti al parlante. Diversamente, se il messaggio è inadeguato e scorretto lo riconoscerà più facilmente (ad es.: prendi quello rosso, quando non vi sono oggetti rossi). Alcuni studiosi, come Robinson e Robinson, hanno sottolineato che la reazione esplicita dei genitori ai messaggi poco chiari dei figli potrebbe aiutarli a sviluppare maggiormente le proprie capacità. Altri come Olson e Torrance, invece, hanno sostenuto che l'istruzione scolastica può aiutare il bambino, ponendogli continue richieste di comunicare chiaramente con gli altri e di verificare la validità dei messaggi ricevuti. Le esperienze della lettura e della scrittura favoriscono lo sviluppo delle abilità comunicative. La scrittura rende il linguaggio visibile e favorisce l'analisi delle diverse parti del codice linguistico.
Negli anni della scuola elementare, il bambino sviluppa le abilità comunicative che gli consentono di assumere il ruolo di parlante e di ascoltatore competente, padroneggiando le relazioni semantiche e le regole sintattiche della propria lingua, imparando ad utilizzarla in funzione dei diversi contesti e dei vari interlocutori. Nella c. con interlocutori familiari raramente i bambini sperimentano le difficoltà di capire e farsi capire: l'ampia condivisione di conoscenze tra gli interlocutori (genitore/figlio; bambino/fratello) facilita l'interpretazione dei messaggi e, quindi, la riuscita dell'interazione. In luoghi istituzionali come la scuola, la situazione cambia notevolmente. L'ambiente scolastico non è un contesto facilitante o di supporto come quello familiare. La capacità di c. referenziale, intesa come riferimento verbale ad un oggetto o evento esterno, richiede abilità nel formulare i propri messaggi in modo chiaro e nel riconoscere quelli ricevuti ancorché questi richiedano informazioni aggiuntive. All'inizio della scuola elementare i bambini non sono in grado di formulare descrizioni informative, né di modificare le informazioni che risultano poco chiare. Inoltre, non solo non riconoscono l'ambiguità dei messaggi che ascoltano, ma — quando ne intuiscono l'inadeguatezza — non ne sanno risolvere l'ambiguità chiedendo l'informazione mancante. Fino a 7-8 anni i bambini tendono a produrre messaggi ridondanti che forniscono elementi aggiuntivi inutili alla identificazione del referente. La capacità di diventare parlanti e ascoltatori efficaci migliora con l'età. I bambini diventano parlanti competenti prima di diventare bravi ascoltatori. In ogni caso, se è vero che verso i 10-11 anni sviluppano capacità comunicative complete, la loro capacità di comprensione è piena fin dai primi anni della scuola elementare, quando ricevono messaggi completamente informativi.
5) Prove standardizzate. La Prova di comunicazione referenziale, destinata a soggetti in età evolutiva, permette di valutare la capacità del bambino di produrre messaggi informativi e di comprendere quelli che ascolta. Una simile prova è stata utilizzata su un campione di 600 alunni italiani della scuola elementare. Il soggetto e l'esaminatore sono seduti di fronte e separati da uno schermo opaco, posto al centro del tavolo. La prova è costituita da 30 items in cui sono rappresentate serie di figure a colori. Tredici items valutano la capacità del soggetto di produrre messaggi informativi, altri tredici quella di rispondere adeguatamente a informazioni ambigue, tre a messaggi adeguati. La somministrazione della prova è individuale e ha una durata di circa venti minuti. Quando il bambino assume il ruolo di parlante, l'esaminatore accetta le descrizioni fornitegli senza formulare commenti; quando il soggetto esaminato svolge il ruolo di ascoltatore l'esaminatore gli fornisce i messaggi previsti aspettando la risposta. Negli items in cui si forniscono messaggi inadeguati il bambino è invitato a porre domande solo se manifesta dubbio o incertezza. La prova, applicata in campo educativo e scolastico, può fornire agli insegnanti uno strumento adatto a valutare le abilità di c. nell'intero ciclo della scuola elementare; in campo clinico, costituisce una procedura diagnostica per valutare le carenze di c. verbale in soggetti a rischio.
6) La comunicazione linguistica. Il linguaggio, com'è stato osservato, è un sistema comunicativo estremamente complesso. La capacità di parlare e comprendere un discorso non dipendono solo dal corretto funzionamento dei diversi organi preposti alla c. linguistica (udito, encefalo, vie nervose, muscolatura bucco-fonatoria), ma dall'acquisizione di precise competenze: una competenza fonologica, attinente al riconoscimento e alla gestione dei suoni che compongono il linguaggio; una competenza sintattica, attinente al riconoscimento e alla capacità di coniugare morfemi e parole in frasi grammaticalmente corrette e dotate di senso compiuto; una competenza semantica, attinente all'attribuzione di significato alle parole e alle frasi; una competenza pragmatica, attinente al riconoscimento del significato di una frase e che si avvale sia di informazioni extraverbali (postura, mimica, gesti) sia di dati relativi al contesto (chi dice la frase, come la dice e in quali circostanze), indipendenti dal significato letterale.
Le proprietà che differenziano il sistema linguistico da altri mezzi di c. sono la creatività e l'arbitrarietà. Chi parla una lingua è in grado di produrre un numero infinito di messaggi attraverso la combinazione di una serie finita di fonemi e parole. Non c'è, inoltre, alcun rapporto automatico tra suono e significato: il significato, infatti, non può essere ricavato dal suono, ma viene necessariamente appreso e trasmesso.
7) Definizioni del linguaggio. Possono essere molteplici le definizioni del linguaggio, che, in linea generale, si può indicare come il mezzo fondamentale attraverso il quale un individuo preserva se stesso adattandosi, mediante esso, al mondo esterno. Il linguaggio è stato oggetto di studio fin dalle origini della storia umana. Schematicamente si può dire che è stato analizzato facendo ricorso, in particolare, a tre approcci: convenzionalista, naturalistico e di teoria della scelta. Per i sostenitori dell'approccio convenzionalista ogni segno linguistico è del tutto arbitrario. Le prime interpretazioni del linguaggio come convenzione risalgono alle riflessioni di Parmenide e di Empedocle, secondo i quali le parole sono etichette illusorie. Democrito ribadì questi orientamenti riferendosi, ad esempio, all'omonimia in base alla quale nomi uguali indicano oggetti diversi; alla diversità delle designazioni per indicare una medesima cosa; alla facoltà di modificare i nomi delle cose. Il convenzionalismo puro di tali autori — fondato sull'assoluta arbitrarietà del riferimento linguistico — fu corretto da Aristotele con un convenzionalismo apparente. Per il grande filosofo greco, infatti, tra l'oggetto e la parola che lo designa esiste una terza entità chiamata rappresentazione mentale o concetto: le parole, cioè, non sono uguali per tutti, ma si riferiscono alle rappresentazioni mentali, che sono identiche per chiunque e che rinviano ad immagini di oggetti uguali per tutti. Di conseguenza, mentre il rapporto che intercorre tra parola e immagine mentale è convenzionale, il rapporto tra immagine mentale e oggetto è naturale: è proprio il carattere necessario del secondo tipo di relazione a determinare la struttura generale del linguaggio. Per i sostenitori dell'approccio naturalistico il nome appartiene per natura alla cosa ed è in grado di esprimerne la specie in lettere e sillabe. In quest'ambito, si distinguono quattro teorie: 1) la teoria dell'interiezione, formulata da Epicuro, secondo la quale l'uomo produce espressioni verbali sotto l'influenza di determinate emozioni e immagini; 2) la teoria dell'onomatopea, secondo la quale i vocaboli sono imitazioni di suoni naturali; 3) la teoria della metafora, secondo la quale il codice linguistico non è frutto di imitazione ma di un atto creativo. Va detto che la produzione linguistica non si riferisce a termini generali e astratti, ma ad immagini individuali e personali; 4) la teoria dell'immagine logica, secondo la quale il linguaggio esprime l'essenza delle cose. Infine, per i sostenitori della teoria della scelta il linguaggio è uno strumento e il significato delle parole è determinato dall'uso che se ne fa (Platone). In altri termini, la parola è il risultato di scelte ripetute e sanzionate dall'uso.
8) La comunicazione non verbale. Il modo in cui si realizza l'interazione umana resta ancora, per molti versi, un mistero. Nell'ultimo mezzo secolo, una gran quantità di studi ha cominciato a chiarire che lo sviluppo dell'individuo si accompagna ad una interpretazione del suo ambiente, inclusi il suo ambiente sociale, il pianto, il riso e un'altra gran serie di elementi comunicativi. Di questo processo comunicativo, una parte consistente riguarda il linguaggio: non il linguaggio come tale, ma in quanto progressiva strutturazione e organizzazione dell'universo esterno nella mente del bambino. Gli studi dell'etologia, dell'antropologia sociale e della sociologia hanno chiarito molti aspetti sin qui rimasti oscuri. Le evidenze riportate dagli etologi dell'infanzia e da altri studiosi del comportamento precoce hanno messo in luce la natura e la struttura della c. non verbale dell'uomo nelle le prime fasi di vita. Gli antropologi sociali e i sociologi, dal canto loro, sono giunti a una più profonda comprensione dei meccanismi di formazione del pensiero, così come viene plasmato dalle categorie e dalle credenze dell'ambiente culturale. Molte teorie e studi sul campo hanno dimostrato che l'interazione comunicativa umana ha il suo fondamento in norme nascoste e implicite di comportamento (differenti a seconda delle culture), tra le quali svolge un ruolo preminente la c. verbale. In qualsiasi cultura, infatti, esistono norme su quanto una persona possa approssimarsi spazialmente a un'altra: norme, queste, che dipendono dal contesto dell'interazione e dal rapporto tra persone coinvolte. L'interazione verbale si verifica all'interno di questo schema. Hall (1959; 1966) ha studiato efficacemente le sfere e le regole dell'interazione spaziale, inaugurando un ambito di studio che ha definito prossemica. Precedentemente, Birdwhistell (1970) aveva indagato le norme implicite dell'interazione non verbale, focalizzando l'attenzione in particolare sul rapporto tra queste e le espressioni verbali, rilevando inoltre come spesso siano gli aspetti non verbali della c. a definire il tipo delle affermazioni verbali, il loro inizio e la loro fine. Tali studi — che confluirono in quella che Birdwhistell definì teoria strutturale individuavano analiticamente e sistematicamente una cinquantina di movimenti e di posizioni elementari del corpo (cinemi), che costituiscono il repertorio di un'interazione comunicativa strutturata. L'autore ipotizzò che le sequenze comportamentali formate da queste unità di base si strutturano analogamente all'organizzazione in parole e frasi o nelle sequenze sonore di una lingua. Studiando in vivo alcuni particolari della posizione del corpo, dell'espressione del viso e del tono della voce, Goffmann (1969) ha messo in rilievo la presenza di stili culturalmente accettati e specifici in un determinato contesto. Per Goffmann, il cui approccio è stato definito drammaturgico, le dinamiche della vita possono essere rappresentate appunto drammaticamente, e sebbene non vi sia alcuna possibilità di sottrarsi al proprio destino, c'è almeno quella di scegliere uno stile anziché un altro. Nel corso di colloqui psichiatrici svolti direttamente all'interno del contesto familiare, Scheflen (1964) ha osservato alcune caratteristiche ricorrenti (il modo di star seduti, di incrociare le gambe, di muovevare il corpo) che indicavano la presenza di relazioni gerarchiche, di strutture di potere o di complessi inconsci tra loro. Argyle (1967) ha sviluppato, invece, ampi studi sulle relazioni visive e le ha indicate come un meccanismo fondamentale della c. non verbale. Non è nota la differenza tra le diverse culture riguardo il tipo di relazioni visive, ma sembra certo, almeno in quelle studiate, che un'interazione positiva implichi sempre un certo grado di relazioni visive, la cui quantità e distribuzione (sia per il tipo di interazione verbale, sia per le regole cui soggiace l'intero ambiente) hanno a che fare con l'intimità o la gerarchia sociale. Per Argyle, gli elementi non verbali dell'interazione prendono parte altrettanto attiva degli elementi verbali nella composizione di messaggi. Dunque, le espressioni non verbali non funzionano da trama di sostegno del messaggio verbale essenziale, ma rappresentano parti essenziali del messaggio globale. Più in generale si può affermare con Sebeok (1986) che la c. non verbale è un campo enormemente vasto, che riguarda oltre il 90% dell'azione umana, comprende, infatti, i gesti, i movimenti, gli sguardi, i toni della voce, l'aspetto esteriore ed altro ancora. E perlopiù sfugge all'autocontrollo, sebbene possa essere controllata consapevolmente. Un ruolo fondamentale, in tal senso, è svolto dalle modalità mediante le quali il corpo partecipa all'interazione fra persone. Nella c. non verbale il mittente A codifica il suo stato, le sue emozioni e le sue intenzioni interpersonali attraverso un segnale non verbale che B decodifica. Naturalmente, sia la codifica sia la decodifica possono essere o non essere corrette. In generale, essa può essere rappresentata attraverso il seguente schema:
— A codifica e B decodifica correttamente;
— la decodifica errata di B avviene o perché A è stato inefficace, o perché B è un destinatario inefficace, o per entrambi i motivi;
— A invia un messaggio ingannevole che B non comprende;
— A non vuole comunicare ma B comunque decodifica tale messaggio;
— A non vuole comunicare e B decodifica scorrettamente.
La c. non verbale riguarda le emozioni individuali e gli atteggiamenti sociali. I due principali atteggiamenti verso gli altri sono: a) amichevole/ostile (o di affiliazione); b) dominante/sottomesso.
Molti tra i segnali interpersonali sono innati. Ad esempio, i bambini piccoli sollevano le braccia per essere presi in braccio, piangono se vengono separati dalla madre, ridono giocando con altri bambini, aggrottano le sopracciglia se attaccano un altro bambino. Tuttavia, la c. degli atteggiamenti interpersonali viene anche ad essere modificata dalle regole sociali, che variano da cultura a cultura. Ad esempio, nei Paesi arabi non sono consentiti atteggiamenti affettuosi tra eterosessuali, cosa invece molto diffusa in Occidente.
La c. non verbale è formata dall'insieme di un sistema intonazionale e di un sistema paralinguistico: entrambi riguardano gli aspetti non strettamente linguistici del parlato, come il tono, il timbro, le pause. Tuttavia, la c. non verbale si esprime attraverso tre comportamenti fondamentali: 1) il comportamento spaziale, definito prossemica, che si riferisce al significato della distanza tra i corpi e si identifica nel tipo di contatto corporeo, nell'orientazione e nella postura; 2) il comportamento motorio-gestuale, che esprime particolari significati attraverso i movimenti, soprattutto quelli delle mani e del capo. La loro principale funzione è quella del rinforzo, possono cioè incoraggiare colui che parla a proseguire nel discorso. Altri tipi di gesti possono essere emblematici, illustratori, ostentatori, regolatori e adattativi; 3) il comportamento mimico del volto, che esprime determinati significati attraverso il diverso uso (spontaneo) dei muscoli facciali.
9) Linguaggio e inconscio. Il problema della c. intrapsichica ha a che fare con l'individuazione di un ordine immaginario con forte potere di significazione, definito da Freud rappresentazione dell'istinto. Sebbene nella sua ricerca iniziale non vi sia traccia esplicita di una riflessione intorno al simbolo — per Freud, infatti, la vita psichica si esprime nel gioco esclusivo di equilibri pulsionali e istanze psichiche — nell'elaborazione più matura si è fatta strada la consapevolezza che il simbolismo rappresenti uno dei cardini di ogni cultura: la consapevolezza, cioè, che ogni individuo è attraversato da una trama di simboli e significanti che lo irretisce nelle trame della propria storia e della propria cultura. L'uomo riesce a pensare con difficoltà il proprio ordine simbolico perché vi è coinvolto con tutto se stesso. Del resto, tutti gli esseri umani partecipano dell'universo dei simboli, tutti vi sono inclusi e lo subiscono molto più di quanto non lo costituiscano. Lacan, riprendendo l'interpretazione freudiana del sogno (che è una delle formazioni dell'inconscio con il motto di spirito, il lapsus etc.) come di un testo scritto, giunge a dire che l'inconscio è strutturato come un linguaggio e i suoi contenuti sono articolati dalle leggi linguistiche delineate da Jacobson: metafora e metonimia. Il simbolo attraversa costantemente la riflessione psicoanalitica: è infatti generatore di senso, matrice delle strutture profonde, ponte tra mondo pensato e mondo vissuto, grammatica dell'intenzionalità psichica. Il simbolo non ha solo un valore espressivo (come pure al livello semantico), ma anche uno euristico, che conferisce universalità, temporalità e portata ontologica alla comprensione di noi stessi. Questo non tanto perché riporti in luce l'intenzione secondaria che permette l'interpretazione, ma perché tematizza l'universalità, la temporalità, l'esplorazione ontologica interne al mito. Il simbolo — mediando tra mondo interno e mondo esterno, rimozione e sublimazione, processo primario e processo secondario, oggetto parziale e oggetto totale: in breve, tra natura e cultura — è al cuore della psicoanalisi; svolge funzioni terapeutiche, provoca abreazione ed entra nel sottile gioco dei meccanismi di transfert e controtransfert. Le molteplici definizioni conferite nel tempo al simbolo ne svelano la complessità, la polivalenza linguistica, l'ininterrotta fluttuazione di senso, in continuo autosuperamento. Tuttavia, se questo è vero un'utilizzazione estensiva del simbolo e del simbolismo appare del tutto implausibile. È, infatti, necessario delimitarne l'applicazione solo a quel che è pertinente in psicoanalisi: cioè, a quel che si coniuga alla rappresentazione di materiale inconscio. In altri termini, solo ciò che è rimosso ha bisogno di essere simbolizzato. Il processo di simbolizzazione avviene nell'inconscio. Tranne in alcuni casi, l'individuo non è consapevole del significato del simbolo che impiega. Nei casi in cui ne diviene consapevole, giunge anche a dare al simbolo il significato di realtà. Cassirer (1910) ha unificato nel simbolico i concetti di realtà e di cultura, fino a sostenere che la formazione del simbolo ed ogni attività di pensiero (dalla percezione al linguaggio) si realizzano esclusivamente nell'Io; secondo Jones, invece, solo il materiale inconscio può consentire il processo di simbolizzazione. In altre parole, in senso rigorosamente psicoanalitico si possono definire simboli solo quelle rappresentazioni (costituitesi come investimenti affettivi) che restano inspiegabili sul piano logico e che si identificano su livelli profondi con un'altra cosa cui quell'eccedenza di senso appartiene. Sebbene il simbolo presupponga l'Io, non potrebbe aver luogo senza uno scambio, in un momento cruciale dello sviluppo psichico, tra Sé e Mondo, tra figura simbolica e oggetto simbolizzato. Analizzando i processi di pensiero degli schizofrenici, Segal ha introdotto il modello delle equazioni simboliche: un modello caratterizzato dalla frantumazione delle operazioni logico-transizionali, dove i simboli vengono identificati come oggetti, in un processo che vede il come se dissolversi. In altri termini, se per il paziente nevrotico è come se il terapeuta fosse il padre oppure come se una grotta rappresentasse un utero,per lo schizofrenico il terapeuta è il padre e la grotta è un utero, che minaccia e distrugge, con la conseguente sensazione viva e immediata di terrore. In Tipi Psicologici (1921), Jung ha sostenuto che il simbolo sintetizza l'insieme delle istanze psichiche. Sottraendo il simbolo al rigido ruolo semantico cui era stato circoscritto da Freud, Jung lo designa come vero e proprio fattore asemantico di unificazione tra conscio e inconscio. Secondo Zolla (1982) il simbolo è un archetipo: il suo riconoscimento consapevole limita il rischio della nevrosi; al contrario, il suo rifiuto lo trasforma in sintomo psicopatologico. Collabora incessantemente con la coscienza al processo di individuazione, in una tensione che impegna tutto l'apparato psichico. In altre parole, contribuendo al processo di individuazione — e, dunque, allo sviluppo del Sé il simbolo media quei conflitti profondi, altrimenti laceranti per la coscienza, divenendo così, da un lato, la porta d'accesso all'immaginazione creativa inconscia e, dall'altro, il referente insostituibile del linguaggio e del pensiero. La questione squisitamente epistemologica della contrapposizione tra assolutizzazione dell'Io e biologizzazione dell'inconscio — cioè del rapporto tra simbolo e processi inconsci, e inoltre della ricerca e del reperimento dei luoghi di formazione del simbolo — è colta in pieno da Lorenzer (1975). Questi, infatti, assumendo in pieno tali difficoltà, ha tentato di redistribuire i ruoli all'interno di una diversa processualità: dove, da un lato, l'Io diviene il luogo di definizione del simbolo e, dall'altro, l'inconscio ne diviene l'energia creatrice. In luogo delle tradizionali dinamiche di formazione del simbolo, subentra un unico momento — la formazione del simbolo da parte dell'Io — in cui l'inconscio, in accordo con l'Io, rappresenta una fonte di stimolo di tipo e intensità particolare. In buona sostanza, l'Io si costituisce come l'istanza creatrice di forme e di simboli. Diversamente, l'inconscio viene ad essere la riserva di materiale produttore di stimoli non ancora o non più cosciente.
10) La comunicazione animale. Il linguaggio è una caratteristica esclusiva dell'uomo ed è alla base dello sviluppo della cultura umana. Fino alla comparsa dell'animale provvisto di linguaggio (l'uomo), gli animali erano costretti ad adattarsi all'ambiente o a soccombere. Con la nascita del linguaggio, l'evoluzione ha seguito un corso completamente diverso. Lo sviluppo della capacità di trasmettere idee e conoscenze attraverso il linguaggio ha permesso all'uomo non solo di ribaltare il corso dell'evoluzione, ma di modificare vieppiù l'ambiente secondo le proprie esigenze (sebbene vi sia da dire che, per la rapidità con la quale sta deteriorando l'equilibrio ecologico, quella umana sarà ricordata per il dubbio merito di essere l'unica specie ad avere modificato l'ambiente al punto di prepararne la distruzione). Prima di inoltrarci nella discussione sulla c. animale, è utile operare una distinzione tra linguaggio e c. Va detto, infatti, che se è vero che solo l'uomo possiede il linguaggio, è nondimeno vero che molte specie animali comunicano tra loro con altre modalità: in alcuni casi — come, ad esempio, il pappagallo — possono addirittura emettere suoni uguali a parole. Ciò nonostante, il pappagallo non può fare un discorso sensato associando parole diverse: gli mancano, infatti, la sintassi (le regole relative alla disposizione delle parole in una frase) e la grammatica (l'insieme delle regole che strutturano correttamente un linguaggio). Come abbiamo visto in precedenza, i bambini piccoli — che possono avere un linguaggio più limitato di quello di un pappagallo ben addestrato — sono capaci, mediante l'uso appropriato della sintassi, di generare frasi sensate nuove, frasi cioè che non hanno appreso in precedenza come tali. La c. animale è ben più ampia e articolata di quella umana, sebbene non attenga alla consapevolezza dei propri atti o all'intenzionalità del proprio comportamento. Entra in gioco ogni qual volta il comportamento dell'animale emittente modifica la probabilità di risposta dell'animale destinatario ed è sottoposta a vere e proprie regolarità tra i membri di una specie. Ad un livello molto elementare, la c. specie-specifica implica la liberazione di alcune sostanze chimiche — i feromoni — che hanno la funzione di segnali. Naturalmente, la c. tra gli animali superiori non è necessariamente specie-specifica: ad esempio, se un leone, in cerca di cibo, si avvicina a un gruppo di babbuini prossimo a un branco di zebre, il segnale di allarme emesso da una delle due specie viene interpretato correttamente anche dall'altra. Alcune forme di c. sembrano comuni a tutti i primati e sono forse specifiche dell'ordine. Sebbene gli esempi di c. intraspecifica e interspecifica siano innumerevoli, non esiste alcuna evidenza circa l'esistenza di altre specie — oltre l'uomo — che abbiano sviluppato quella forma specializzata di c. che chiamiamo linguaggio. Gli scimpanzé in libertà mostrano un'ampia gamma di vocalizzazioni che servono a comunicare l'informazione, ma i cui suoni sembrano essere specie-specifici e non molto dipendenti dall'apprendimento. La parte più rilevante del sistema di c. sembra essere dedicato all'organizzazione del comportamento sociale del gruppo, alla dominanza, alla sottomissione, al mantenimento della pace e della coesione al suo interno, alla riproduzione e all'allevamento dei piccoli. Un'analisi, ancorché sintetica, dei sistemi della c. animale aiuta a comprendere meglio la c. umana essenzialmente per due ragioni: 1) lo studio dei sistemi di c. animale può portare a una migliore comprensione degli elementi fondamentali della c. umana fornendo elementi sull'evoluzione stessa del linguaggio nell'uomo; 2) l'analisi della c. animale ci costringe a disporci come osservatori esterni dei fenomeni comunicativi. Studiare in modo astratto il linguaggio animale dall'esterno ci aiuta ad assumere il medesimo atteggiamento nei confronti del linguaggio umano. Naturalmente, è impossibile determinare con esattezza cosa significhino i segnali nella c. animale. Ciò nondimeno è possibile venire a capo del rapporto fra il segnale e il comportamento animale. Particolari studi sugli scimpanzé hanno identificato i canali maggiormente utilizzati dagli animali nella c.: a) il canale visivo, che si riferisce a diversi segnali tra cui l'espressione del volto, le emozioni, lo sguardo, i gesti, il comportamento spaziale, la postura, l'aspetto esteriore; b) il canale tattile, rintracciabile nella manipolazione reciproca, definita anche tolettatura sociale, compiuta con zampe e braccia non solo allo scopo di pulire la testa, il collo e la schiena dell'altro, ma anche con la finalità sociale di scaricare le tensioni del gruppo e di sorreggere l'equilibrio (pratica molto diffusa tra i babbuini); c) il canale olfattivo, che ha alla base una predisposizione chimica: molti animali hanno ghiandole particolari che permettono loro di accentuare l'odore delle urine o degli escrementi al fine di delimitare il proprio territorio, di comunicare la propria disponibilità sessuale, di indicare la presenza di cibo o di pericolo etc.; d) il canale acustico, che viene utilizzato attraverso particolari vocalizzazioni: i primati meno evoluti hanno vocalizzazioni ben definite, mentre quelli più evoluti hanno vocalizzazioni più elaborate e complesse (ad es.: i lemuri possiedono sette tipi di suoni, i cercopitechi fino a trentasei).