Comunicazione
Comunicazione
Dal latino communicare (far comune), tale concetto rinvia a fenomeni vari e numerosi ed assume spesso significati cos ì generali da presentare non facili problemi di definizione in sede scientifica. In effetti, tutta la fenomenologia della vita relazionale e sociale potrebbe essere vista in termini di c., dalla prima relazione madre-figlio alla vastissima gamma dei fenomeni internazionali tra le persone, i gruppi, le istruzioni, le organizzazioni, senza escludere le forme di relazione tra organismi viventi e ambiente, sia ancora le relazioni che collegano parti di sistemi artificiali nei pi ù disparati ambiti tecnologici.
1) Struttura della comunicazione. L'idea di c. è implicita nel dialogo tra due persone, ma anche nelle relazioni tra due servomeccanismi: il concetto di c. è pervasivamente utilizzato nell'ambito delle relazioni umane e nel pi ù generale contesto del sistema sociale, cos ì come nel mondo dei sistemi tecnologici dai pi ù semplici ai pi ù complessi. Con tale premessa, avendo a mente soprattutto gli aspetti sociali ed umani della c., potremmo definirla come una trasmissione di informazioni codificate da una sorgente (o emittente) a un destinatario (o ricevente) attraverso un canale (o mezzo).
VEDI SCHEMA
Lo schema mostra come la struttura del processo di c. possa essere rappresentata da due poli (sorgente e destinatario), i quali dispongono di meccanismi di trasmissione e di ricezione e della capacit à di compiere operazioni di codificazione e di decodificazione dell'informazione nell'ambito di segnali il cui insieme costituisce il messaggio: questo viene trasmesso attraverso un canale. Nel nostro schema abbiamo collegato i meccanismi di trasmissione-ricezione con il canale allo scopo di sottolinearne la stretta interdipendenza: in effetti se intendiamo con canale il mezzo fisico attraverso cui passa una trasmissione è implicito che la sua natura sia in stretta dipendenza dagli apparati fisici di trasmissione e di ricezione. Si pu ò cos ì parlare di un canale verbale-uditivo nel caso di informazioni passate attraverso la voce umana, di un canale gestuale nel caso di informazioni espresse a gesti, o anche di canali telegrafici, di canali radiofonici, di canali costituiti da mezzi a stampa e cos ì via (in realt à il concetto di canale è spesso usato in modo non univoco e solo a livello dei meccanismi di trasmissione-ricezione acquista un significato pi ù chiaro). Le c. umane utilizzano spesso contemporaneamente pi ù canali, e questo complica ovviamente l'analisi del processo di c., della qualit à e della quantit à dell'informazione etc. Occorre aggiungere che meccanismi di trasmissione-ricezione e canale costituiscono degli elementi che impongono precise caratteristiche e vari limiti alla c. e, laddove possibile, scelte di modalit à comunicative diverse in relazione ai tipi di canali disponibili. Se è vero che varie limitazioni alla c. sono poste dalle caratteristiche della ricezione e della decodificazione è altrettante vero che anche la capacit à, l'immediatezza etc. del canale pongono problemi in tal senso. I rumori interferenti indicati nello schema rappresentano i disturbi che possono interferire nel processo di c.: in pratica, non esiste trasmissione di informazione che non risenta di disturbi dipendenti dal mezzo o dei meccanismi interessati. La loro analisi costituisce un capitolo importante in ogni studio sulla c. Come indicato dalle frecce, il flusso è interamente orientato dalla sorgente al destinatario: ma la linea di direzione contraria (in basso) vale ad indicare coma la c. implichi anche un'attivit à da parte del destinatario, che indichiamo come reazione di ritorno (feedback). L'ulteriore linea che racchiude lo schema vale ad indicare che ogni processo di c. va visto non isolatamente ma inserito nel contesto in cui avviene, ossia nell'insieme delle caratteristiche della situazione (sociale, fisica etc.) a tutti i livelli di significato che coinvolgono sorgente e destinatario. Lo schema proposto pu ò adattarsi a c. di diversa natura e complessit à, nel cui ambito i poli, i meccanismi, le operazioni possono assumere caratteristiche assai differenti. Ogni elemento citato nello schema porterebbe con s é un ampio discorso in grado di coinvolgere diversi ambiti disciplinari, dalla fisica alla fisiologia, alla psicologia, alla sociologia, alla semiologia etc. Ci limiteremo qui a toccare alcuni temi pi ù importanti, riferendoci essenzialmente ad aspetti della c. implicanti l'essere umano nella vita di relazione sociale. Una prima precisazione va condotta sul problema del codice. Ci si pu ò chiedere, in effetti, perch é limitare la nostra definizione alla trasmissione di informazioni codificate (cio è consistenti in segni che, organizzati nell'ambito di un sistema, rappresentano qualcosa di diverso da se stessi: oggetti o idee) quando è evidente che l'ambiente è percorso in continuazione da flussi di informazione anche non codificata che ci raggiungono. Come si è detto in precedenza, tutta la fenomenologia dell'ambiente relazionale e sociale pu ò essere vista come c. In altri termini, tutto ci ò che arriva agli organi sensoriali di un organismo (o agli apparati di registrazione di qualsiasi sistema organizzato) pu ò essere considerato come un dato informativo che l'organismo riceve ed elabora: ma questa concezione pu ò permettere ben pochi progressi nello studio dei processi di c. È dunque necessario distinguere tra elaborazione come operazione cognitiva di interpretazione ed organizzazione dell'informazione, e c. come passaggio di messaggi trascritti in un codice comune alla sorgente e al ricevente-destinatario, ossia tra l'operazione isolata di un organismo che decifra i dati della sua esperienza e il processo interazionale tra due (o pi ù organismi) in possesso di un codice comune.
2) L'intenzionalit à. Strettamente collegato al problema del codice è quello dell'intenzionalit à della c. In realt à il concetto di intenzionalit à dovrebbe automaticamente essere comportato da quello di codice e da quello di c., se diamo per implicito che nell'ambito di un processo comunicativo interpersonale l'emittente intenda trasmettere consapevolmente un segnale al destinatario, sapendo che questi pu ò dargli un significato. Tuttavia l'attenzione per gli aspetti comunicativi del comportamento paraverbale e gestuale, lo studio dei comportamenti segnici nel mondo animale (segnali di pericolo, di corteggiamento, di delimitazione territoriale etc.) in sintonia con il crescente spazio che i processi non coscienti occupano nel pensiero psicologico contemporaneo (non solo in ordine a tesi psicoanalitiche, ma anche cognitiviste) rendono pi ù problematica la questione, sino a far pensare ad una specie di continuum tra comportamento informativo e comportamento comunicativo, cio è tra processi connessi con la c. quale l'abbiamo definita e pi ù generali processi di elaborazione dell'informazione. Questo aspetto risulter à meglio evidenziato inserendo la ricezione e la decodificazione (questa come operazione atta a tradurre i segnali in significati) nel pi ù generale sistema di comprensione delle intenzioni dell'emittente, degli scopi che hanno presieduto all'invio del suo messaggio e che, con il messaggio, si propone di ottenere. Non sempre, in realt à, un'esatta decodificazione dei segnali da parte del ricevente porta quest'ultimo (inteso come destinatario) ad un'esatta comprensione degli scopi che la sorgente si proponeva, soprattutto quando sorgente e destinatario siano rappresentati da esseri umani o comunque gestiti da esseri umani. L'esperienza quotidiana offre molti esempi di questa difficolt à di comprensione, che pu ò essere imputabile alle caratteristiche del messaggio (ottenuto ormai di molti studi diretti a rendere i testi comunicati chiari, comprensibili, poco ambigui etc.) oppure anche alle caratteristiche sensoriali dei meccanismi trasmittenti e soprattutto riceventi (come è noto l'essere umano è in grado di ricevere soltanto un limitato numero di segnali contemporaneamente e dopo un certo tempo le sue capacit à di ricezione diminuiscono), nonch é all'attenzione che presiede alla ricezione in dipendenza del suo grado di focalizzazione e di diffusione (donde lo studio anche di segnali atti a risvegliare e tener desta e focalizzata l'attenzione). La difficolt à di comprensione di una c. pu ò esse inoltre dovuta alle caratteristiche dell'attivit à mentale che presiede alle operazioni di elaborazione, soprattutto sotto il profilo delle sintesi, riduzioni, semplificazioni, categorizzazioni etc. operate dalla mente umana nell'organizzazione del materiale ricevuto. Molto spesso, tuttavia, le difficolt à di comprensione sono dovute non solo ai fattori sopra citati ma alla pluralit à di significati profondi (in termini di scopi e di intenzioni) che un messaggio pu ò ricoprire in dipendenza sia dei fattori personali intrinseci alla sorgente o al destinatario, sia della situazione globale in cui è inserito. Se questo fatto è riscontrabile nella normale c. colloquiale tra due persone, tanto pi ù lo è al livello di comunicazione di massa, soprattutto se mediata da complessi canali organizzati di trasmissione (ad es.: articoli di giornale, discorsi politici, reti di comunicazione aziendale e cos ì via). Su un versante quindi occorre ben studiare i fattori specifici (potremmo dire tecnici nell'ambito di discipline di vario tipo) legati al messaggio, agli organi trasmittenti-riceventi, alle operazioni mentali di decodificazione e di significazione dei messaggi; mentre su un altro versante occorre costantemente tener conto delle variabili assai meno facili a definirsi comportate dall'insieme di atteggiamenti, aspettative, scopi, motivazioni etc. delle persone coinvolte nella comunicazione nonch é del contesto in cui la comunicazione avviene (tipologie socio-culturali, persone, eventi in corso, ruoli in atto, situazioni aperte o sottostanti di potere e cos ì via).
3) Le funzioni della comunicazione. Questi aspetti ci richiamano alle funzioni della c., in particolare, le pi ù importanti sono: a) la comunicazione referenziale, che indica uno scambio di informazioni tra due poli su un oggetto-referente; b) la comunicazione espressiva, diretta ad esprimere qualcosa da un polo all'altro; c) la comunicazione di controllo e regolazione delle condotte in atto, delle azioni e soprattutto dell'interazione in corso. In realt à non si tratta di punti di vista univoci e, in definitiva, ogni possibile elenco di funzioni finirebbe con l'essere troppo esteso o troppo ristretto e suscettibile di ottiche diverse. Quello che occorre comunque sottolineare è il fatto che la c., al di l à di ogni intrinseca funzione specifica, ha sempre una generale funzione di cambiamento nella misura in cui ogni evento comunicativo modifica qualcosa nell'ambito del sistema di eventi, di oggetti, di idee in cui avviene. La forma pi ù palese in cui questo fondamentale aspetto viene colto e studiato è quella che vede la c. come un essenziale strumento di influenza sociale, non solo ai pi ù specifici livelli di c. persuasiva (studi di Hovland e della Scuola di Yale) e di c. come contratto fondato su una posta in gioco , ma anche ai pi ù sottili e sfumati livelli dell'interazione di tipo intimo, affettivo e cos ì via. Ovviamente il concetto di influenza va inteso qui in senso molto lato, come meccanismo agente in modo pervasivo in tutta la vita sociale. Le ricerche in questo settore hanno messo in luce aspetti assai fini delle strategie di c. in concomitanza con tipi di messaggi, modalit à di trasmissione, fattori connessi con le posizioni sociali della sorgente e del ricevente. Altri autori (Scuola sovietica e psicologia critica), maggiormente legati al concetto di lavoro e di attivit à, hanno sottolineato la funzione della c. nella determinazione e regolazione di condotte di cooperazione sociale, in un'ottica che privilegia lo sforzo comune, di gruppo, la cooperazione in vista di uno scopo collettivo. Ai due poli dell'influenza o della cooperazione (che nell'ottica psicosociale non sono poi cos ì escludentisti ma anzi compenetrati nelle condotte collettive) la c. evidenzia cos ì i suoi essenziali caratteri di processo sociale: un processo che è alla base stessa della vita sociale e di ogni forma di relazione ma che, allo stesso tempo, è condizionato in ogni suo aspetto dall'insieme dei rapporti sociali, dalle regole, dai ruoli, dalla cultura, dalle condizioni materiali di vita.
4) Sviluppo della competenza comunicativa umana. Avviene nei primi anni di vita attraverso l'apprendimento delle regole d'uso del linguaggio verbale dettate dall'ambiente circostante. Progressivamente, il repertorio comunicativo si amplia attraverso l'integrazione del linguaggio non verbale e del lessico. Il linguaggio consente al bambino di stabilire una c. pi ù efficace. La progressiva acquisizione dell'abilit à linguistica segna l'approdo ad un sistema di c. caratterizzato dall'uso interdipendente dei canali verbali e gestuali. In uno studio del 1993, Volterra ha tracciato il profilo evolutivo dello sviluppo comunicativo del bambino il quale, a un anno di et à, utilizza in prevalenza il repertorio gestuale; a sedici mesi si avvale sia di gesti che di parole; successivamente, il rapido incremento del vocabolario riduce il ricorso alla gestualit à: le due modalit à comunicative tendono a divergere dopo uno sviluppo parallelo. Un importante mezzo di segnalazione che il bambino utilizza è il sorriso, espresso tramite il canale visivo-cinesico. Convenzionalmente, l'atto del sorridere rappresenta l'espressione mimata di un affetto positivo che veicola felicit à, piacere, tenerezza e favorisce la relazione interpersonale: il sorriso del bambino, richiamando l'attenzione della madre e provocandone la reazione amorevole, innesca l'approccio sociale. Nelle prime settimane di vita, il neonato attraversa una fase di sorriso riflesso, prodotto occasionalmente: il bambino sorride istintivamente, stimolato dalle variazioni di luminosit à nel suo campo visivo. Tuttavia, l'adulto interpreta il comportamento del lattante secondo un codice convenzionale che individua nel sorriso l'espressione visivo-cinesica di uno stato emozionale positivo. All'et à di cinque-sei settimane di vita subentra la fase del sorriso sociale. A quest'et à, il bambino che trascorre in uno stato di veglia attiva l'80% del tempo in cui non dorme, possiede un maggiore controllo dei movimenti oculari che gli consentono di seguire bersagli visivi in lento movimento e stabilire un contatto faccia a faccia con l'interlocutore. In questa fase il sorriso esogeno è provocato da elementi visivi o acustici come il volto, la voce e gli occhi delle persone. Gli stimoli facciali fungono, dunque, da fattori sociali scatenanti. Gli studi etologici sull'orientamento hanno rilevato che la vista degli occhi attiva nel neonato la risposta del sorriso: a provocarlo sono sufficienti due punti disegnati su un cartoncino ovale bianco. Il progressivo processo di apprendimento segna l'approdo, al terzo mese di vita circa, ad una fase di sorriso sociale selettivo. Il bambino è tendenzialmente attratto dalle persone familiari e il suo sorriso è provocato dalla voce e dal volto del genitore, o di chi si prende cura di lui. Anche il pianto svolge una fondamentale funzione adattativo-informativa, fornendo una serie diversificata di segnali, e presenta una variet à di forme dotate di uno specifico andamento ritmico. Nelle prime fasi di vita, il neonato piange stimolato soprattutto da fattori di natura organica. Successivamente, il bambino ne comprende il valore comunicativo utilizzandolo per richiamare, l'attenzione della madre e intensificare il legame di attaccamento. Gli elementi inibitori sono rappresentati dalla suzione, dal contatto fisico, dall'oscillazione, dalla visione di un volto umano, dalla voce. Wolff (1969) ha individuato tre modelli: il pianto di base, il pianto di rabbia, il pianto di dolore. Il pianto di base è stimolato dalla fame ed è caratterizzato da un avvio lento e aritmico, che diviene successivamente pi ù intenso e ritmato. Il pianto per rabbia presenta un andamento ritmico simile al pianto per fame, ma se ne distingue per un suono pi ù squillante. Il pianto di dolore si manifesta inizialmente con un grido cui seguono alternativamente fasi di inspirazioni affannose e singhiozzi espiratori. Un altro segnale sociale volto a stabilire un'interazione con l'ambiente circostante è la vocalizzazione. Il bambino ne scopre il potere comunicativo e la capacit à di influenzare il comportamento materno non prima delle quattro settimane di vita. La vocalizzazione presenta uno sviluppo progressivo: nelle prime tre settimane, si manifestano soltanto suoni riflessi (gemiti, grida) e vegetativi (sibili, starnuti, colpi di tosse); segue una fase di suoni (strilli, gorgoglii, suoni vocalici), stimolati dalle sollecitazioni dell'adulto, che riflettono uno stato di calma e benessere. Verso i due-tre mesi il bambino si impegna con il genitore in uno scambio vocale caratterizzato dall'alternanza di sequenze prolungate di suoni. Infatti, nel periodo compreso fra i due e i sei mesi d'et à compaiono e si definiscono i suoni vocalici, che il bambino utilizza nell'incontro vis a vis con una persona familiare, avviando una sorta di protoconversazione . Intorno al sesto-settimo mese di vita, periodo in cui compaiono i suoni consonantici, inizia la lallazione canonica. In questa fase il bambino è in grado di produrre sillabe caratterizzate dalla sequenza consonante-vocale (CV, CVCV). Il suono reiterato delle sequenze sillabiche è definito lallazione reduplicata. Questo balbettio raddoppiato induce spesso il genitore ad un'errata interpretazione che provoca confusione nelle sequenze consonante + vocale con le parole, per cui, ad esempio, la ripetizione della sequenza ma diventa facilmente mamma . A questo stadio dello sviluppo il bambino impara a riconoscere e vocalizzare i suoni della lingua materna, perdendo la capacit à iniziale di produrre molteplici contrasti fonetici. Verso i dieci-dodici mesi è in grado di elaborare strutture sillabiche complesse. Questa viene definita fase della lallazione variata: infatti, i suoni sono simili a parole di due sillabe che assumono un significato all'interno di un contesto specifico. Ben presto il bambino diviene capace di ripetere ogni parola di due sillabe; quelle composte da tre o pi ù sillabe assumono una forma fonetica idiosincratica (ad es.: pizzica diventa picca ), oppure subiscono l'omissione delle sillabe che presentano l'accento (caramella diventa mella ). Mentre i suoni vocalici raggiungono rapidamente una maturit à articolatoria, quelli consonantici vengono articolati correttamente in fasi diverse. I bambini che imparano l'italiano come lingua materna acquisiscono per prime le nasali (m) e (n), le occlusive bilabiali (p) e (b) e le apicodentali (t) e (d); successivamente articolano le occlusive velari (k) e (g) e le fricative labiodentali (f) e (v); la r e la s vengono pronunciate solo verso i quattro-cinque anni. Pi ù difficili da ripetere sono i dittonghi, di cui i bambini tendono ad omettere una delle vocali (ad es.: Paolo diventa Pallo ). Lo sviluppo fonologico coincide con quello lessicale e grammaticale: la difficolt à di pronunciare alcuni suoni determina una maggiore lentezza nella produzione di alcune forme lessicali. In una successiva fase di apprendimento il bambino user à la lallazione finalizzandola ad uno scopo; apprender à, cos ì, l'importanza del suo comportamento e l'influenza che è in grado di esercitare sull'interlocutore adulto. Un altro mezzo di segnalazione fondamentale per l'interazione sociale è la fissazione dello sguardo. Nella prima fase dello sviluppo il diverso orientamento dello sguardo è determinato dalle variazioni di luminosit à: il volto umano, caratterizzato da movimenti lineari e di contrasto, costituisce un forte stimolo. Tuttavia, fino ai quattro mesi di vita il bambino non è in grado di distinguere il volto di una persona specifica. Tale capacit à si sviluppa successivamente, divenendo uno dei principali stimoli del processo di attaccamento. Il gesto del sollevare le braccia, sollecitato dal desiderio di avvicinarsi alla madre, pu ò manifestarsi, per la prima volta, tra la quattordicesima e la trentasettesima settimana di vita. I gesti comunicativi sono quelle azioni che il bambino mette in atto, nell'ultimo trimestre del primo anno di vita (9-12 mesi), per indicare, mostrare, offrire. Si tratta dei cosiddetti gesti performativi o deittici che, coinvolgendo oggetti/eventi esterni presenti in uno specifico contesto d'azione, contengono un'intenzione comunicativa che mira a comunicare a un'altra persona l'obiettivo da raggiungere. Per converso, l'esplorazione dei contorni di una figura con l'indice è un comportamento gestuale privo di intenzioni comunicative. Il gesto performativo presenta, diversamente, una struttura &lquot;triadica': è un segnale distale (comunicato cio è a distanza) che richiede il contatto visivo con l'interlocutore ed implica un'alternanza di sguardi tra l'interlocutore e l'oggetto esterno. Il gesto deittico ad esempio, quello di indicare con il dito è diffuso in tutte le culture ed è oggetto di studi approfonditi dalla fine dell'Ottocento. Il gesto di indicare per attirare l'attenzione di qualcuno su un oggetto o evento dell'ambiente circostante, si manifesta tra gli otto e i sedici mesi: il suo apprendimento consente al bambino di assumere un ruolo pi ù attivo nella c. L'indicare è accompagnato dallo sguardo rivolto all'interlocutore. All'et à di dodici mesi, il 40% delle indicazioni è sincronizzato al contatto visivo con la figura materna. Prima di allora il bambino guarda il suo interlocutore solo quando questi ha nelle mani l'oggetto che suscita un suo interesse. Il controllo visivo, esercitato sull'interlocutore, segue un processo evolutivo: a dodici mesi il bambino lo guarda dopo aver indicato l'oggetto di interesse; a sedici mesi richiama con lo sguardo l'interlocutore prima di compiere il gesto. Gradualmente, impara a comprendere anche il gesto di indicare altre figure. Fino all'et à di nove mesi, tuttavia, il bambino non comprende il gesto di indicare compiuto dalla madre e guarda contemporaneamente il dito e ci ò che ha indicato. Verso i dodici mesi è attratto dagli oggetti presenti nel suo campo visivo, mentre all'et à di diciotto mesi è in grado di orientarsi verso gli oggetti presenti alle sue spalle. Non vi è accordo tra gli studiosi su quali siano le relazioni esistenti tra produzione e comprensione del gesto deittico: alcuni bambini sono in grado di comprendere l'indicazione prima di avere la capacit à di riprodurla, altri invece apprendono il gesto prima di comprenderlo. Il gesto di indicare pu ò essere utilizzato con due diversi intenti comunicativi, che si manifestano in soggetti di et à compresa fra gli undici e i sedici mesi. Le due intenzioni sono forme diverse di uno stesso meccanismo cognitivo che permette di stabilire, da un lato, una distinzione fra mezzi e scopi e, dall'altro, di utilizzare intenzionalmente diversi strumenti per il raggiungimento dell'obiettivo. L'azione di indicare pu ò essere, infatti, utilizzata per ottenere un oggetto che suscita interesse (intenzione richiestiva) o per richiamare l'attenzione di qualcuno (intenzione dichiarativa). Entrambe le intenzioni presentano due diversi profili cognitivi. L'indicazione richiestiva nasce dall'intento del bambino di influenzare il comportamento altrui per raggiungere uno scopo; l'intenzione dichiarativa consente di influire sul comportamento psicologico dell'altro, stimolando il suo interesse o la sua condivisione su qualche aspetto della realt à. Verso i dodici mesi compare il gesto cosiddetto referenziale o rappresentativo , veicolo di significati che rimangono invariati col mutare del contesto. Si tratta di gesti compiuti per indicare oggetti, rappresentare eventi, compiere azioni come muovere le mani per simulare l'uccello, aprire e chiudere le dita in segno di saluto, scuotere la testa per negare. L'apprendimento di questi movimenti gestuali avviene imitando il comportamento dell'adulto familiare nelle fasi di gioco. Gradualmente, questo tipo di gestualit à perde le sue caratteristiche ludiche per assumerne altre a chiaro scopo comunicativo. Il bambino comprende sempre pi ù le possibilit à di influenzare il comportamento dell'adulto attraverso la propria gestualit à. Alcuni studiosi hanno sottolineato l'importanza del gesto di indicare nell'acquisizione del linguaggio, ipotizzando un rapporto di continuit à tra c. gestuale e verbale. Per Werner e Kaplan il gesto di indicare implica il riferimento ad un oggetto e la sua rappresentazione simbolica; per Bruner (1983), invece, consente di stabilire un comune focus di attenzione tra due persone. In ogni caso, costituisce un atto sociale attraverso il quale i partecipanti condividono un argomento. Numerosi studi hanno ipotizzato l'esistenza di una relazione tra questo gesto a 12-16 mesi di et à e la nascita del repertorio verbale; e, a 20 mesi di et à, con l'ampiezza del vocabolario. Certo è che questo tipo di gestualit à favorisce lo sviluppo linguistico: i bambini che ne fanno maggiormente uso risultano, a 20 mesi, linguisticamente evoluti. Da uno studio di Desrochers (1995) è risultato, poi, che i bambini che avevano imparato ad indicare prima dei 12 mesi raggiungevano un punteggio pi ù alto nelle prove volte ad accertare le capacit à linguistiche. La ricerca ha rilevato, inoltre, che il bambino che ha precocemente appreso l'uso dell'indicazione per orientare l'attenzione dell'interlocutore raggiunge, all'et à di due anni, un livello avanzato di sviluppo linguistico. Secondo alcuni (Bates et al., 1979), il legame tra comunicazione gestuale e linguaggio scaturisce dalla comune capacit à di comunicare tramite segnali convenzionali . Per Petitto (1988), invece, l'indicazione favorisce lo scambio verbale e sociale tra il bambino e il suo interlocutore, promuovendo l'acquisizione del linguaggio. L'atto gestuale innesca il commento dell'adulto che fornisce il nome dell'oggetto o formula una domanda. Di qui l'associazione tra parole e oggetti. La