Regionalismo
Regionalismo
Nel Trattato istitutivo delle Comunità europee non erano presenti disposizioni che potessero incidere direttamente sull’ordinamento regionale o sulle partizioni interne dei vari Stati aderenti.
L’assetto comunitario delineato nel 1957 con il Trattato di Roma era sostanzialmente indifferente al riparto interno di competenze tra il livello statuale e quello regionale, avendo le istituzioni comunitarie come interlocutori principali gli Stati e, cosa ancora più importante, considerando lo Stato come l’unico responsabile di eventuali inadempimenti degli obblighi comunitari. Questa impostazione, di carattere sostanzialmente “internazionalistico”, era avallata anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, per la quale uno Stato membro non può richiamarsi a situazioni del proprio ordinamento interno per giustificare l’inadempimento di obblighi comunitari; esso resta il solo responsabile dell’inadempimento quale che sia l’uso che ha fatto della libertà di ripartire le competenze normative sul piano interno.
Soltanto nel corso degli anni ’70 le Regioni assunsero maggiore rilevanza in ambito comunitario, con l’avvio dei primi progetti per ridurre il divario tra le varie realtà regionali europee e con l’istituzione, nel 1975, del Fondo europeo per lo sviluppo regionale (FESR); mancava però ancora una coerente e organizzata visione regionalistica dell’Europa e soprattutto le varie realtà regionali non assumevano alcuna rilevanza rispetto all’ordinamento comunitario.
Da questo punto di vista lo spartiacque è rappresentato dall’Atto unico europeo del 1986, dove per la prima volta la politica di coesione economica e sociale (v.) veniva elevata al rango di politica comunitaria (v.), rientrando in tal modo tra gli obbiettivi prioritari della Comunità, con l’adozione dei relativi strumenti politici e finanziari. Quello che il nuovo trattato non prevedeva invece, era un organismo di raccordo tra la Comunità e le realtà regionali. Questa lacuna fu parzialmente colmata dalla Commissione delle Comunità europee che nel 1988 istituì il Comitato consultivo delle autorità regionali e locali; si trattava di un Comitato formato da esperti che veniva consultato in merito all’attivazione e allo sviluppo di tutte le politiche comunitarie che in qualche modo potessero incidere sulla realtà regionale.
Con il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 questa forma di cooperazione è stata istituzionalizzata con la creazione del Comitato delle Regioni (v.).
Per quanto riguarda l’Italia il D.P.R. 616/77, che disciplinava i rapporti tra normativa comunitaria e ruolo delle Regioni e dello Stato, fu il primo provvedimento che iniziò a correggere la visione, estremamente centralistica, che i precedenti provvedimenti avevano avuto in materia di attuazione di disposizioni comunitarie. Il provvedimento, attribuiva alle Regioni tutte le funzioni amministrative derivanti dall’applicazione delle normative comunitarie, ma subordinava l’esercizio di tali funzioni al previo recepimento con legge dello Stato, nella quale venivano indicate le norme di principio e di dettaglio nel caso di inerzia delle Regioni.
Una prima parziale apertura è venuta con l’approvazione dell’articolo 13 della L. 16 aprile 1987, n. 183 (legge Fabbri), successivamente abrogato e riportato con contenuto identico nella legge La Pergola (v.). Per la prima volta veniva attribuita, alle sole Regioni a statuto speciale, la facoltà di dare attuazione alle raccomandazioni e alle direttive comunitarie nelle materie di loro competenza esclusiva.
Una più ampia apertura alle istanze regionali è avvenuta con l’approvazione dell’articolo 13 della legge comunitaria 1995-1997 (L. 24 aprile 1998, n. 128) con la quale è stato riformulato l’art. 9 della legge La Pergola. Con la nuova formulazione, non solo le Regioni a statuto speciale, ma anche quelle a statuto ordinario possono immediatamente dare attuazione alle disposizioni comunitarie, sia per ciò che riguarda le materie di competenza esclusiva che quelle concorrenti.
Nel Trattato istitutivo delle Comunità europee non erano presenti disposizioni che potessero incidere direttamente sull’ordinamento regionale o sulle partizioni interne dei vari Stati aderenti.
L’assetto comunitario delineato nel 1957 con il Trattato di Roma era sostanzialmente indifferente al riparto interno di competenze tra il livello statuale e quello regionale, avendo le istituzioni comunitarie come interlocutori principali gli Stati e, cosa ancora più importante, considerando lo Stato come l’unico responsabile di eventuali inadempimenti degli obblighi comunitari. Questa impostazione, di carattere sostanzialmente “internazionalistico”, era avallata anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, per la quale uno Stato membro non può richiamarsi a situazioni del proprio ordinamento interno per giustificare l’inadempimento di obblighi comunitari; esso resta il solo responsabile dell’inadempimento quale che sia l’uso che ha fatto della libertà di ripartire le competenze normative sul piano interno.
Soltanto nel corso degli anni ’70 le Regioni assunsero maggiore rilevanza in ambito comunitario, con l’avvio dei primi progetti per ridurre il divario tra le varie realtà regionali europee e con l’istituzione, nel 1975, del Fondo europeo per lo sviluppo regionale (FESR); mancava però ancora una coerente e organizzata visione regionalistica dell’Europa e soprattutto le varie realtà regionali non assumevano alcuna rilevanza rispetto all’ordinamento comunitario.
Da questo punto di vista lo spartiacque è rappresentato dall’Atto unico europeo del 1986, dove per la prima volta la politica di coesione economica e sociale (v.) veniva elevata al rango di politica comunitaria (v.), rientrando in tal modo tra gli obbiettivi prioritari della Comunità, con l’adozione dei relativi strumenti politici e finanziari. Quello che il nuovo trattato non prevedeva invece, era un organismo di raccordo tra la Comunità e le realtà regionali. Questa lacuna fu parzialmente colmata dalla Commissione delle Comunità europee che nel 1988 istituì il Comitato consultivo delle autorità regionali e locali; si trattava di un Comitato formato da esperti che veniva consultato in merito all’attivazione e allo sviluppo di tutte le politiche comunitarie che in qualche modo potessero incidere sulla realtà regionale.
Con il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 questa forma di cooperazione è stata istituzionalizzata con la creazione del Comitato delle Regioni (v.).
Per quanto riguarda l’Italia il D.P.R. 616/77, che disciplinava i rapporti tra normativa comunitaria e ruolo delle Regioni e dello Stato, fu il primo provvedimento che iniziò a correggere la visione, estremamente centralistica, che i precedenti provvedimenti avevano avuto in materia di attuazione di disposizioni comunitarie. Il provvedimento, attribuiva alle Regioni tutte le funzioni amministrative derivanti dall’applicazione delle normative comunitarie, ma subordinava l’esercizio di tali funzioni al previo recepimento con legge dello Stato, nella quale venivano indicate le norme di principio e di dettaglio nel caso di inerzia delle Regioni.
Una prima parziale apertura è venuta con l’approvazione dell’articolo 13 della L. 16 aprile 1987, n. 183 (legge Fabbri), successivamente abrogato e riportato con contenuto identico nella legge La Pergola (v.). Per la prima volta veniva attribuita, alle sole Regioni a statuto speciale, la facoltà di dare attuazione alle raccomandazioni e alle direttive comunitarie nelle materie di loro competenza esclusiva.
Una più ampia apertura alle istanze regionali è avvenuta con l’approvazione dell’articolo 13 della legge comunitaria 1995-1997 (L. 24 aprile 1998, n. 128) con la quale è stato riformulato l’art. 9 della legge La Pergola. Con la nuova formulazione, non solo le Regioni a statuto speciale, ma anche quelle a statuto ordinario possono immediatamente dare attuazione alle disposizioni comunitarie, sia per ciò che riguarda le materie di competenza esclusiva che quelle concorrenti.