Principio del primato del diritto comunitario
Principio del primato del diritto comunitario
Con questa espressione s’intende quel principio per cui in caso di conflitto, di contraddizione o di incompatibilità tra norme di diritto comunitario (v.) e norme nazionali, le prime prevalgono sulle seconde.
La necessità di affermare questo principio nasce dal fatto che la diretta applicabilità del diritto comunitario (v.) non potrebbe costituire una garanzia sufficiente per i cittadini degli Stati membri in quelle ipotesi in cui una norma comunitaria dovesse contrastare con una disposizione interna; se quest’ultima dovesse prevalere sulla norma comunitaria i diritti attribuiti ai singoli dall’ordinamento comunitario non troverebbero alcuna tutela.
Il principio del primato del diritto comunitario, volto proprio ad evitare tale eventualità, fu affermato per la prima volta nella celebre sentenza del 15 luglio 1964, Costa c. Enel (v.). In quell’occasione la Corte sostenne che:
— con l’istituzione della Comunità gli Stati membri hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi;
— tale limitazione di sovranità ha come corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere contro tale ordinamento un provvedimento unilaterale ulteriore; se ciò accadesse sarebbe scosso lo stesso fondamento giuridico della Comunità.
Nella sentenza 9 marzo 1978, Amministrazione delle Finanze c. Simmenthal, la Corte fu ancora più esplicita affermando che “in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere “ipso jure” inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche, in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri, di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie”.
Nella stessa sentenza la Corte chiariva quali erano gli effetti dell’applicazione di un tale principio, in particolare per quanto riguardava l’attività del giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito delle proprie competenze, il diritto comunitario.
Quest’ultimo, infatti, “ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”.
Con questa espressione s’intende quel principio per cui in caso di conflitto, di contraddizione o di incompatibilità tra norme di diritto comunitario (v.) e norme nazionali, le prime prevalgono sulle seconde.
La necessità di affermare questo principio nasce dal fatto che la diretta applicabilità del diritto comunitario (v.) non potrebbe costituire una garanzia sufficiente per i cittadini degli Stati membri in quelle ipotesi in cui una norma comunitaria dovesse contrastare con una disposizione interna; se quest’ultima dovesse prevalere sulla norma comunitaria i diritti attribuiti ai singoli dall’ordinamento comunitario non troverebbero alcuna tutela.
Il principio del primato del diritto comunitario, volto proprio ad evitare tale eventualità, fu affermato per la prima volta nella celebre sentenza del 15 luglio 1964, Costa c. Enel (v.). In quell’occasione la Corte sostenne che:
— con l’istituzione della Comunità gli Stati membri hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi;
— tale limitazione di sovranità ha come corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere contro tale ordinamento un provvedimento unilaterale ulteriore; se ciò accadesse sarebbe scosso lo stesso fondamento giuridico della Comunità.
Nella sentenza 9 marzo 1978, Amministrazione delle Finanze c. Simmenthal, la Corte fu ancora più esplicita affermando che “in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere “ipso jure” inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche, in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri, di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie”.
Nella stessa sentenza la Corte chiariva quali erano gli effetti dell’applicazione di un tale principio, in particolare per quanto riguardava l’attività del giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito delle proprie competenze, il diritto comunitario.
Quest’ultimo, infatti, “ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”.