Politica economica
Politica economica artt. 98-104 Trattato CE
Branca della scienza economica che studia l’intervento dello Stato nel sistema economico e suggerisce gli strumenti da porre in essere affinché siano raggiunti alcuni obiettivi considerati socialmente desiderabili.
In ambito comunitario non si può parlare di politica economica propriamente detta, bensì di coordinamento delle politiche economiche dei diversi Stati membri. Questi ultimi, infatti, secondo quanto disposto dall’art. 98 del Trattato CE, attuano la loro politica economica allo scopo di contribuire alla realizzazione degli obiettivi della Comunità.
A differenza degli altri settori di intervento comunitari, quindi, in questo campo non è stato attuato un vero e proprio trasferimento di competenze alle istituzioni comunitarie, ma è stato adottato il sistema del coordinamento delle politiche nazionali.
Sebbene già nel 1950, con il Piano Schuman (v.), si faceva largo l’idea di realizzare un’organizzazione il cui scopo principale fosse l’unificazione economica degli Stati membri, è con la nascita delle Comunità europee che furono evidenziate le linee direttive per l’instaurazione del mercato comune (v.) e la realizzazione dell’integrazione economica e commerciale.
Con la direttiva 18 febbraio 1974 si cercò di dare un carattere di stabilità al coordinamento delle politiche economiche dei vari Stati.
Il sistema si basava sulla previsione dell’obbligo per il Consiglio di dedicare ogni mese una seduta agli affari economici e finanziari, mentre tre volte all’anno doveva, esaminata la situazione economica e monetaria, procedere alla fissazione degli orientamenti politici per la Comunità ed i paesi membri, sentito il parere del Comitato economico e sociale (v. CES).
Un raccordo fra questa attività e quella svolta dai Parlamenti nazionali (v.), in materia di bilancio e di politica economica, ha condotto all’adozione di una procedura di consultazione (v.).
Si definirono anche le condizioni di elaborazione di un programma di politica economica a medio termine. La direttiva prevedeva la redazione di un progetto preliminare ad opera del Comitato di politica economica, in relazione al quale la Commissione poteva proporre al Consiglio emendamenti motivati. Quest’ultima istituzione procedeva all’adozione definitiva del programma i cui obiettivi erano indirizzati ad orientare le variabili macroeconomiche a medio termine, funzionali alla realizzazione dell’unione monetaria.
Si era tentato, per questa via, di introdurre uno strumento di coordinamento della politica economica a medio termine in assenza di prescrizioni specifiche del Trattato. Può comprendersi quanto ambizioso fosse un tale obiettivo se si considera che quasi coevamente alla direttiva del 1974, gli Stati persero uno strumento fondamentale di politica economica: la gestione dei dazi doganali (v.) e delle restrizioni quantitative (v.) all’importazione.
Allo scopo di consentire il riequilibrio per altra via dei conti con l’estero la Comunità creò nuovi strumenti, alcuni dei quali conferirono alle Banche centrali (v. BCN) le risorse necessarie per il riequilibrio del tasso di cambio (v.) mentre altri erano rivolti al finanziamento delle bilance dei pagamenti.
Il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri ed un obbligo di cooperazione in tal senso furono inseriti nelle previsioni dell’Atto unico europeo (v. AUE), all’art. 98.
L’attività delle istituzioni veniva limitata, prevedendosi poteri di intervento solo in presenza di situazioni particolari, agevolando la politica di uno Stato membro e garantendone anche uno svolgimento conforme all’interesse comune. Inserendo un nuovo capo dedicato alla “Cooperazione in materia di politica economica e monetaria”, l’Atto unico si limitava, dopo aver riconosciuto la necessità di operare una convergenza e non più un vero coordinamento delle politiche economiche e monetarie degli Stati, a disporre che questi ultimi, nel rispetto delle competenze esistenti, “tengono conto delle esperienze acquisite grazie alla cooperazione nell’ambito del sistema monetario europeo (v. SME) e allo sviluppo dell’ECU (v.)”.
Nulla mutò nella realtà mentre venne rafforzata la competenza comunitaria esistente, prevedendosi la possibilità, nel contempo, di un ulteriore sviluppo verso la realizzazione di una vera e propria unione economica e monetaria (v. UEM).
La vera svolta in questo campo, infatti, sarebbe venuta soltanto alcuni anni dopo con la pubblicazione del Rapporto Delors (v.), vero pilastro di tutta la successiva politica monetaria (v.) europea.
Il Trattato di Maastricht ha profondamente modificato il Trattato CEE collegando la realizzazione del mercato interno (v.) all’unione economica e monetaria. Gli elementi fondamentali dell’unione economica, che sono stati ripresi dal Rapporto Delors, consistevano:
— nel mercato unico;
— nel coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri;
— nelle politiche strutturali e di sviluppo regionale;
— in più incisive politiche della concorrenza;
— in una più oculata gestione dei bilanci.
Il Capo I del Titolo VII del Trattato CE (artt. 98-104) individuava le linee di politica economica cui le istituzioni comunitarie e gli Stati membri dovevano attenersi sin dalla prima fase: essi agivano nel rispetto dei principi del libero mercato e dovevano tendere alla convergenza dei risultati economici, considerando le loro politiche economiche una questione d’interesse comune. Gli indirizzi di massima per le singole politiche erano, infatti, adottati dal Consiglio a maggioranza qualificata. Inoltre, per favorire la convergenza, con l’entrata in vigore del trattato era stato previsto un meccanismo di sorveglianza multilaterale: gli Stati trasmettevano alla Commissione le informazioni concernenti le misure adottate nell’ambito della loro politica economica.
Qualora si accertava che le politiche economiche di uno Stato membro non erano coerenti con gli indirizzi di massima fissati dal Consiglio o rischiavano di compromettere il corretto funzionamento dell’unione economica e monetaria, il Consiglio poteva rivolgere allo Stato membro in questione le necessarie raccomandazioni.
Qualora uno Stato membro si trovava in difficoltà o era seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di circostanze eccezionali che sfuggivano al suo controllo, il Consiglio poteva concedere a determinate condizioni un’assistenza finanziaria comunitaria allo Stato membro interessato.
A partire dalla seconda fase (scattata il 1° luglio 1994) è stata posta una maggiore attenzione alla politica delle finanze pubbliche degli Stati membri i quali dovevano evitare disavanzi pubblici eccessivi (v. Procedura dei disavanzi eccessivi). In particolare, la Commissione sorvegliava l’evoluzione della situazione di bilancio e dell’entità del debito pubblico degli Stati basandosi su due valori di riferimento: il rapporto fra il disavanzo pubblico ed il prodotto interno lordo, che non doveva essere superiore al 3%, e il rapporto fra debito pubblico ed il PIL che non doveva superare il 60%.
Con il passaggio alla terza fase (dal 1° gennaio 1999), possono essere adottate anche misure sanzionatorie nei confronti degli Stati membri con deficit eccessivi (v. Patto di stabilità e crescita).
Branca della scienza economica che studia l’intervento dello Stato nel sistema economico e suggerisce gli strumenti da porre in essere affinché siano raggiunti alcuni obiettivi considerati socialmente desiderabili.
In ambito comunitario non si può parlare di politica economica propriamente detta, bensì di coordinamento delle politiche economiche dei diversi Stati membri. Questi ultimi, infatti, secondo quanto disposto dall’art. 98 del Trattato CE, attuano la loro politica economica allo scopo di contribuire alla realizzazione degli obiettivi della Comunità.
A differenza degli altri settori di intervento comunitari, quindi, in questo campo non è stato attuato un vero e proprio trasferimento di competenze alle istituzioni comunitarie, ma è stato adottato il sistema del coordinamento delle politiche nazionali.
Sebbene già nel 1950, con il Piano Schuman (v.), si faceva largo l’idea di realizzare un’organizzazione il cui scopo principale fosse l’unificazione economica degli Stati membri, è con la nascita delle Comunità europee che furono evidenziate le linee direttive per l’instaurazione del mercato comune (v.) e la realizzazione dell’integrazione economica e commerciale.
Con la direttiva 18 febbraio 1974 si cercò di dare un carattere di stabilità al coordinamento delle politiche economiche dei vari Stati.
Il sistema si basava sulla previsione dell’obbligo per il Consiglio di dedicare ogni mese una seduta agli affari economici e finanziari, mentre tre volte all’anno doveva, esaminata la situazione economica e monetaria, procedere alla fissazione degli orientamenti politici per la Comunità ed i paesi membri, sentito il parere del Comitato economico e sociale (v. CES).
Un raccordo fra questa attività e quella svolta dai Parlamenti nazionali (v.), in materia di bilancio e di politica economica, ha condotto all’adozione di una procedura di consultazione (v.).
Si definirono anche le condizioni di elaborazione di un programma di politica economica a medio termine. La direttiva prevedeva la redazione di un progetto preliminare ad opera del Comitato di politica economica, in relazione al quale la Commissione poteva proporre al Consiglio emendamenti motivati. Quest’ultima istituzione procedeva all’adozione definitiva del programma i cui obiettivi erano indirizzati ad orientare le variabili macroeconomiche a medio termine, funzionali alla realizzazione dell’unione monetaria.
Si era tentato, per questa via, di introdurre uno strumento di coordinamento della politica economica a medio termine in assenza di prescrizioni specifiche del Trattato. Può comprendersi quanto ambizioso fosse un tale obiettivo se si considera che quasi coevamente alla direttiva del 1974, gli Stati persero uno strumento fondamentale di politica economica: la gestione dei dazi doganali (v.) e delle restrizioni quantitative (v.) all’importazione.
Allo scopo di consentire il riequilibrio per altra via dei conti con l’estero la Comunità creò nuovi strumenti, alcuni dei quali conferirono alle Banche centrali (v. BCN) le risorse necessarie per il riequilibrio del tasso di cambio (v.) mentre altri erano rivolti al finanziamento delle bilance dei pagamenti.
Il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri ed un obbligo di cooperazione in tal senso furono inseriti nelle previsioni dell’Atto unico europeo (v. AUE), all’art. 98.
L’attività delle istituzioni veniva limitata, prevedendosi poteri di intervento solo in presenza di situazioni particolari, agevolando la politica di uno Stato membro e garantendone anche uno svolgimento conforme all’interesse comune. Inserendo un nuovo capo dedicato alla “Cooperazione in materia di politica economica e monetaria”, l’Atto unico si limitava, dopo aver riconosciuto la necessità di operare una convergenza e non più un vero coordinamento delle politiche economiche e monetarie degli Stati, a disporre che questi ultimi, nel rispetto delle competenze esistenti, “tengono conto delle esperienze acquisite grazie alla cooperazione nell’ambito del sistema monetario europeo (v. SME) e allo sviluppo dell’ECU (v.)”.
Nulla mutò nella realtà mentre venne rafforzata la competenza comunitaria esistente, prevedendosi la possibilità, nel contempo, di un ulteriore sviluppo verso la realizzazione di una vera e propria unione economica e monetaria (v. UEM).
La vera svolta in questo campo, infatti, sarebbe venuta soltanto alcuni anni dopo con la pubblicazione del Rapporto Delors (v.), vero pilastro di tutta la successiva politica monetaria (v.) europea.
Il Trattato di Maastricht ha profondamente modificato il Trattato CEE collegando la realizzazione del mercato interno (v.) all’unione economica e monetaria. Gli elementi fondamentali dell’unione economica, che sono stati ripresi dal Rapporto Delors, consistevano:
— nel mercato unico;
— nel coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri;
— nelle politiche strutturali e di sviluppo regionale;
— in più incisive politiche della concorrenza;
— in una più oculata gestione dei bilanci.
Il Capo I del Titolo VII del Trattato CE (artt. 98-104) individuava le linee di politica economica cui le istituzioni comunitarie e gli Stati membri dovevano attenersi sin dalla prima fase: essi agivano nel rispetto dei principi del libero mercato e dovevano tendere alla convergenza dei risultati economici, considerando le loro politiche economiche una questione d’interesse comune. Gli indirizzi di massima per le singole politiche erano, infatti, adottati dal Consiglio a maggioranza qualificata. Inoltre, per favorire la convergenza, con l’entrata in vigore del trattato era stato previsto un meccanismo di sorveglianza multilaterale: gli Stati trasmettevano alla Commissione le informazioni concernenti le misure adottate nell’ambito della loro politica economica.
Qualora si accertava che le politiche economiche di uno Stato membro non erano coerenti con gli indirizzi di massima fissati dal Consiglio o rischiavano di compromettere il corretto funzionamento dell’unione economica e monetaria, il Consiglio poteva rivolgere allo Stato membro in questione le necessarie raccomandazioni.
Qualora uno Stato membro si trovava in difficoltà o era seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di circostanze eccezionali che sfuggivano al suo controllo, il Consiglio poteva concedere a determinate condizioni un’assistenza finanziaria comunitaria allo Stato membro interessato.
A partire dalla seconda fase (scattata il 1° luglio 1994) è stata posta una maggiore attenzione alla politica delle finanze pubbliche degli Stati membri i quali dovevano evitare disavanzi pubblici eccessivi (v. Procedura dei disavanzi eccessivi). In particolare, la Commissione sorvegliava l’evoluzione della situazione di bilancio e dell’entità del debito pubblico degli Stati basandosi su due valori di riferimento: il rapporto fra il disavanzo pubblico ed il prodotto interno lordo, che non doveva essere superiore al 3%, e il rapporto fra debito pubblico ed il PIL che non doveva superare il 60%.
Con il passaggio alla terza fase (dal 1° gennaio 1999), possono essere adottate anche misure sanzionatorie nei confronti degli Stati membri con deficit eccessivi (v. Patto di stabilità e crescita).