Libera circolazione dei lavoratori

Libera circolazione dei lavoratori artt. 39-42 Trattato CE; art. 69 Trattato CECA

Nel linguaggio comunitario l’espressione fa riferimento alla possibilità per i lavoratori (subordinati o autonomi) di esercitare la loro attività in qualsiasi Stato della Comunità.
Il Trattato istitutivo della CEE (v. Trattati di Roma), nell’ottica della realizzazione di un mercato interno (v.), individuava nella libertà di circolazione dei fattori produttivi lo strumento idoneo ad eliminare gli ostacoli all’integrazione economica. Nel riconoscere la libertà di circolazione ai lavoratori si voleva essenzialmente favorire la redistribuzione territoriale della manodopera, consentendo ai lavoratori più efficienti e qualificati di trovare le condizioni di lavoro più convenienti sul mercato. Dapprima, quindi, strettamente collegato alla figura del lavoratore, il concetto della libera circolazione si è poi esteso sino a ricomprendere qualunque cittadino comunitario, indipendentemente dall’esercizio di una attività lavorativa (v. Libera circolazione delle persone).
Anche il Trattato CECA (v. Trattato di Parigi) prevedeva all’art. 69 la libertà di circolazione dei lavoratori impiegati nelle industrie del settore carbo-siderurgico, disposizione poi abrogata dalle norme in materia del Trattato CEE che si applicavano anche ai lavoratori di questo settore.
La Comunità ha attuato la libera circolazione dei lavoratori in tre fasi successive.
La prima fase (settembre 1961 - maggio 1964) era disciplinata dal regolamento (v.) n. 15, adottato dal Consiglio nel 1961, in base al quale la libera circolazione dei lavoratori era subordinata al rilascio del permesso di lavoro da parte dell’amministrazione del paese ricevente. Dopo un anno di regolare impiego era consentito ai lavoratori di rinnovare il permesso di lavoro per la medesima occupazione. Dopo tre anni era consentito il rinnovo del permesso di lavoro per qualunque occupazione e dopo quattro anni per qualunque tipo di lavoro remunerato. In questa fase esisteva un diritto prioritario nell’occupare posti di lavoro vacanti a favore dei lavoratori della Comunità, discriminando i lavoratori provenienti da paesi terzi.
Nella seconda fase (maggio 1964-giugno 1968) si assistette ad una accelerazione della liberalizzazione della circolazione dei lavoratori, attraverso l’assimilazione del lavoratore straniero a quello del paese d’impiego non più in quattro anni bensì in due (reg. n. 38 del 1964). Tuttavia, venne introdotta una clausola di salvaguardia (v.) in virtù della quale ogni Stato membro poteva assegnare precedenza all’offerta nazionale di lavoratori, con l’obbligo di comunicare tale decisione alla Commissione e di giustificarne le ragioni.
La terza fase (dal 1968) segnò la completa liberalizzazione nella circolazione dei lavoratori, con l’emanazione del regolamento n. 1612 e della direttiva n. 360, entrambi del 1968. Venne, infatti, definitivamente abbandonato il principio della priorità nazionale, vennero aboliti i permessi di lavoro e di conseguenza i lavoratori dell’area comunitaria hanno potuto da allora trovare occupazione in qualsiasi parte del territorio della Comunità, con la sola richiesta del permesso di residenza (accordato per un periodo di 5 anni ed automaticamente rinnovabile).
Il regolamento n. 1612/68 estende il diritto alla libera circolazione ai familiari del lavoratore anche se cittadini di Stati terzi, siano essi appartenenti al nucleo familiare (coniuge e discendenti) che a carico del lavoratore o viventi nella sua casa: viene derogata in tal modo la norma generale che riconosce il diritto in questione solo ai soggetti economicamente attivi.
Lo stesso regolamento contiene le disposizioni di attuazione dell’art. 48 (ora 39) del Trattato CE che contempla il diritto del lavoratore comunitario alla parità di trattamento rispetto ai lavoratori nazionali, sia in riferimento alla retribuzione che alle condizioni di accesso e di svolgimento del lavoro.
I diritti in esame sono soggetti alle deroghe di cui al paragrafo 3 dell’articolo 39 del Trattato CE: si tratta di deroghe aventi ad oggetto motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. È bene sottolineare che i motivi in esame devono essere interpretati in senso restrittivo e non possono essere applicati in modo da discriminare i lavoratori stranieri: a tal proposito, ad esempio, nel caso della tutela della sanità pubblica, la direttiva 64/221 prevede che solo le malattie o infermità figuranti nel suo allegato possono essere invocate, e sempreché siano insorte prima del rilascio del primo permesso di soggiorno.
L’intera disciplina della libera circolazione dei lavoratori non si applica, però, agli impieghi nella pubblica amministrazione; l’esercizio di pubblici poteri, essendo considerato strettamente collegato agli interessi di un Paese, richiede il requisito della cittadinanza. La deroga prevista dall’art. 48 (ora 39), suscita qualche perplessità in quanto il regolamento 1612/68 prevede la parità di trattamento tra cittadini comunitari e nazionali anche per le modalità d’accesso e di esercizio di lavoro. La questione è stata oggetto di numerosi interventi da parte della Corte di giustizia che ha sviluppato una giurisprudenza ormai consolidata sull’argomento. Già nella sentenza del 17 dicembre 1980 (causa 149/79, Commissione c. Belgio) la Corte aveva affermato che “…l’eccezione di cui all’art. 48, par.4, non si applica ai posti i quali, pur dipendendo dallo Stato o da altri enti di diritto pubblico, non implicano tuttavia alcuna partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta”; veniva quindi ritenuta nulla ogni norma interna discriminatoria. Successivamente la Corte è nuovamente intervenuta sull’argomento condannando il Regno del Belgio che richiedeva il requisito della cittadinanza per accedere ai posti di enti pubblici incaricati dell’erogazione di acqua, gas ed elettricità (sentenza del 2 luglio 1996, n. 173); stessa condanna è stata pronunciata nei confronti della Repubblica ellenica con la sentenza del 2 luglio 1996, n. 290.
All’orientamento della Corte si è da tempo allineato il legislatore italiano che, con il D.Lgs. 29/93, ha affermato che lo status di cittadino italiano è necessario solo per accedere ad alcune carriere e per lo svolgimento di alcune funzioni che comportano la facoltà di emanare provvedimenti esecutivi e coercitivi: impieghi nella magistratura ordinaria, posti di livello dirigenziale nelle amministrazioni periferiche o centrali, copertura dl ruolo di Presidente del Consiglio dei Ministri, della Difesa etc.
Il Trattato CE riconosce, inoltre, al cittadino che ha occupato un impiego in uno Stato membro e ai suoi familiari il diritto di rimanere sul territorio di tale Stato. Il regolamento del 29 giugno 1970, n. 1251 contiene la disciplina di attuazione della norma comunitaria, prevedendo il rilascio di una carta di soggiorno valida per cinque anni e automaticamente rinnovabile al lavoratore che vuole soggiornare sul territorio dello Stato dove ha esercitato l’ultima attività lavorativa. La normativa è stata integrata dalla direttiva del 28 giugno 1990, n. 365 che ha eliminato la restrizione al diritto di soggiorno derivante dalla possibilità di esercitare tale diritto solo sul territorio dello Stato dove si è svolta l’ultima attività lavorativa, e lo ha subordinato al requisito del possesso di una rendita sufficiente.