Libera circolazione dei capitali
Libera circolazione dei capitali artt. 56-60 Trattato CE
Secondo quanto disposto dall’art. 56, paragrafo 1, del Trattato CE “sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri nonché tra Stati membri e Paesi terzi”. Il paragrafo 2 dello stesso articolo prevede inoltre, che “sono vietate tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi”. Già dal dettato dell’articolo possiamo tracciare una differenza tra i due commi, relativamente all’oggetto della libertà esaminata: infatti, mentre i pagamenti sono “trasferimenti di valuta che costituiscono una controprestazione nell’ambito di un negozio sottostante”, i movimenti di capitale sono “operazioni finanziarie che riguardano essenzialmente la collocazione o l’investimento di cui trattasi e non il corrispettivo di una prestazione” (vedi sentenza CGCE, Luisi, del 30 gennaio 1984, cause riunite 286/82 e 26/83).
La precisazione ha una sua importanza per definire il campo di applicazione della libertà in esame, in quanto per la libera circolazione dei capitali non fu attuata una liberalizzazione assoluta ed incondizionata come per le altre libertà, ma solo “nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune”. Si tratta senza dubbio di una formulazione più prudente e meno liberale, in virtù di un settore che andava ad investire la politica economica e monetaria degli Stati membri: tutto ciò, fino all’inizio degli anni ’80, era guardato con molta cautela, poiché si riteneva che una liberalizzazione assoluta dei movimenti di capitali, avrebbe potuto provocare uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti di uno o più Stati, pregiudicando il buon funzionamento del mercato comune (vedi sentenza CGCE, Casati, in causa 203/80 dell’11 novembre 1981).
La liberalizzazione dei movimenti di capitali è stata attuata attraverso l’emanazione di tre direttive (rispettivamente nel 1960, nel 1962 e nel 1986) che, tuttavia, non avevano rimosso tutti i vincoli ancora esistenti.
Soltanto con la direttiva 88/361 del 24 giugno 1988 è stata introdotta in ambito comunitario la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali, con la soppressione di tutti i controlli e le restrizioni in materia di cambi.
Il Trattato CE prevede comunque una clausola di salvaguardia (v.), inserita nell’art. 60, laddove recita che “uno Stato membro può, per gravi ragioni politiche e per motivi d’urgenza, adottare misure unilaterali nei confronti di un paese terzo per quanto concerne i movimenti di capitali ed i pagamenti”.
L’adozione di tali misure è però subordinata ad alcune condizioni:
— il Consiglio non deve aver adottato alcuna misura;
— lo Stato deve informare la Commissione e gli altri partner comunitari;
— non deve essere intervenuta una delibera del Consiglio che imponga la revoca di tali atti.
Per far fronte a circostanze eccezionali è, altresì, previsto che le misure di salvaguardia possano essere adottate dal Consiglio, su proposta della Commissione, sentita la BCE (v.) e per un periodo non superiore a sei mesi.
Secondo quanto disposto dall’art. 56, paragrafo 1, del Trattato CE “sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri nonché tra Stati membri e Paesi terzi”. Il paragrafo 2 dello stesso articolo prevede inoltre, che “sono vietate tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi”. Già dal dettato dell’articolo possiamo tracciare una differenza tra i due commi, relativamente all’oggetto della libertà esaminata: infatti, mentre i pagamenti sono “trasferimenti di valuta che costituiscono una controprestazione nell’ambito di un negozio sottostante”, i movimenti di capitale sono “operazioni finanziarie che riguardano essenzialmente la collocazione o l’investimento di cui trattasi e non il corrispettivo di una prestazione” (vedi sentenza CGCE, Luisi, del 30 gennaio 1984, cause riunite 286/82 e 26/83).
La precisazione ha una sua importanza per definire il campo di applicazione della libertà in esame, in quanto per la libera circolazione dei capitali non fu attuata una liberalizzazione assoluta ed incondizionata come per le altre libertà, ma solo “nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune”. Si tratta senza dubbio di una formulazione più prudente e meno liberale, in virtù di un settore che andava ad investire la politica economica e monetaria degli Stati membri: tutto ciò, fino all’inizio degli anni ’80, era guardato con molta cautela, poiché si riteneva che una liberalizzazione assoluta dei movimenti di capitali, avrebbe potuto provocare uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti di uno o più Stati, pregiudicando il buon funzionamento del mercato comune (vedi sentenza CGCE, Casati, in causa 203/80 dell’11 novembre 1981).
La liberalizzazione dei movimenti di capitali è stata attuata attraverso l’emanazione di tre direttive (rispettivamente nel 1960, nel 1962 e nel 1986) che, tuttavia, non avevano rimosso tutti i vincoli ancora esistenti.
Soltanto con la direttiva 88/361 del 24 giugno 1988 è stata introdotta in ambito comunitario la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali, con la soppressione di tutti i controlli e le restrizioni in materia di cambi.
Il Trattato CE prevede comunque una clausola di salvaguardia (v.), inserita nell’art. 60, laddove recita che “uno Stato membro può, per gravi ragioni politiche e per motivi d’urgenza, adottare misure unilaterali nei confronti di un paese terzo per quanto concerne i movimenti di capitali ed i pagamenti”.
L’adozione di tali misure è però subordinata ad alcune condizioni:
— il Consiglio non deve aver adottato alcuna misura;
— lo Stato deve informare la Commissione e gli altri partner comunitari;
— non deve essere intervenuta una delibera del Consiglio che imponga la revoca di tali atti.
Per far fronte a circostanze eccezionali è, altresì, previsto che le misure di salvaguardia possano essere adottate dal Consiglio, su proposta della Commissione, sentita la BCE (v.) e per un periodo non superiore a sei mesi.