Integrazione differenziata
Integrazione differenziata
Termine con il quale si indica quella forma di integrazione che consente agli Stati membri della Comunità di avanzare seguendo ritmi differenti e perseguendo obiettivi diversificati, sulla base delle proprie capacità ed esigenze.
L’origine dell’espressione può essere fatta risalire alla seconda metà degli anni sessanta, in coincidenza con le prime domande di adesione (v.) e i primi significativi sviluppi delle competenze comunitarie.
Fu in quel periodo infatti che cominciarono a manifestarsi difficoltà nel conciliare le innegabili diversità esistenti in seno alla Comunità a livello di sviluppo economico e di volontà politiche.
Nel 1965 fu presentata una prima proposta in tal senso, da parte del presidente della CEEA (v.) Louis Armand, nota come Europa à la carte (v.); si prospettava l’idea di un’Europa in cui ogni Stato avrebbe potuto scegliere gli accordi settoriali che più gli interessavano, al di là delle regole imposte dai trattati comunitari.
Lo sviluppo dell’integrazione comunitaria sarebbe pertanto dovuto procedere attraverso forme di cooperazione intergovernativa (v.).
Sulla base di questa proposta che fu avviata la cooperazione in materia di ricerca scientifica e tecnologica (v. COST) fra i sei paesi della Comunità e i tredici paesi europei che non facevano allora parte della CEE.
Nell’ambito delle proposte relative al progressivo rafforzamento del serpente monetario (v.), nel 1975 si fece strada l’idea del primo ministro belga Leo Tindemans, relativa ad un’Europa a più velocità (v.). Muovendo dalla constatazione delle divergenze degli Stati membri in campo economico e monetario, Tindemans avanzò l’idea di un’Europa in cui l’obiettivo finale fosse comune a tutti i membri, ma in cui gli impegni presi potessero essere assolti in tempi diversi, secondo scadenze predeterminate.
Più volte ripresa negli anni successivi, l’idea di un’Europa a più velocità ha trovato la prima concreta applicazione nel campo dell’unione economica e monetaria (v. UEM) al momento della stipula del Trattato di Maastricht (v.).
In seguito alla creazione dello SME (v.), avvenuta nel 1978, si cominciò a profilare il problema dei contributi che i singoli Stati membri erano tenuti a versare al bilancio comunitario (v.).
Il sistema delle risorse proprie (v.) cominciò difatti a vacillare nel momento in cui la Gran Bretagna, trovandosi in testa ai contributori netti (v.), richiese la restituzione dei contributi versati.
Fra le proposte avanzate in tema di modifiche alla struttura del bilancio, emerse quella relativa ad un’Europa a geometria variabile (v.), termine coniato da Jacques Delors (v.) nel 1980 per ipotizzare uno scenario europeo nel quale una parte degli Stati membri potessero proseguire l’integrazione in alcuni settori cooperando nel quadro delle regole comunitarie, mentre gli Stati dissenzienti sarebbero stati liberi di non aderirvi.
Il Trattato di Maastricht ha in seguito tradotto questa ipotesi nella concessione di opting out (v.), accordati al Regno Unito e alla Danimarca nell’applicazione di alcune politiche comunitarie (v.).
Un’altra tipologia di integrazione differenziata si profilò dopo l’entrata in vigore dell’Atto unico europeo (v. AUE), parallelamente all’esigenza di definire un modello di Unione politica da affiancare all’Unione economica e monetaria.
Fu la volta della formula dei cerchi concentrici (v.) dettata da Delors nel 1988, la quale prevedeva una nuova costruzione dell’Europa eretta sulla base dei diversi livelli di integrazione raggiunti dagli Stati europei. A seconda del livello raggiunto, poteva essere applicato il metodo comunitario (v.) o il metodo intergovernativo (v.).
Il dibattito sull’integrazione differenziata riprese nel 1995, in seguito all’ingresso nella Comunità di Austria, Finlandia e Svezia e alla prospettiva di un’apertura ai paesi dell’Europa centro-orientale (v. PECO).
Nell’ottica di un ampliamento (v.) di questa portata, emerse difatti l’esigenza di trovare una soluzione alle conflittualità di natura politica, economica e sociale che si sarebbero inevitabilmente create all’interno dell’Unione senza per questo rischiare di compromettere il livello di integrazione raggiunto fino a quel momento.
Una prima proposta fu avanzata dal Regno Unito.
L’allora primo ministro britannico John Major si mostrò favorevole ad una integrazione debole, idea che fu successivamente rilanciata nel 1995 dal Centro di ricerca per la politica economica (CEPR).
L’ipotesi prevedeva una forma di Unione decentrata in cui alcune politiche, come la politica commerciale, la politica ambientale e gli aiuti allo sviluppo, sarebbero state inserite in un quadro internazionale più vasto, mentre le altre sarebbero state affidate alla competenza esclusiva degli Stati membri. Si operava pertanto una distinzione fra le componenti fondamentali dell’Unione comune a tutti gli Stati membri e quelle supplementari, per le quali non esiste concordanza di opinioni. La base comune avrebbe inoltre dovuto escludere i settori di competenza del secondo pilastro (v.) e del terzo pilastro (v.) dell’Unione. Le regole per l’istituzione di partnership aperte avrebbero dovuto essere fissate dal trattato, mentre le regole interne di ogni partnership sarebbero state dettate da specifici accordi intervenuti fra gli Stati partecipanti.
Il secondo progetto fu di matrice tedesca. Secondo il partito del concelliere Kohl (v.), era indispensabile redigere un documento che si ispirasse al modello di Stato federale: al fine di evitare che l’integrazione europea procedesse soltanto sulla base della cooperazione intergovernativa, si rendeva necessario che il concetto di Europa a più velocità o delle geometrie variabili fosse istituzionalizzato nel Trattato.
Si trattava di operare un’integrazione forte, attuata attraverso la formazione di un nucleo duro (v.) di paesi, i quali avrebbero potuto instaurare una collaborazione più approfondita fra loro in alcuni settori, anche senza la volontà comune di tutti gli Stati membri. Di questo nuclo sarebbero però potuti entrare a far parte tutti i paesi della Comunità , non appena fossero stati pronti ad assumersi gli impegni presi dal gruppo più solido.
L’idea di procedere ad un’integrazione forte sulla base del modello tedesco fu accolta nel 1996 dalla Conferenza intergovernativa (v. CIG) incaricata della revisione del Trattato di Maastricht.
Con il Trattato di Amsterdam (v.) si è giunti pertanto alla istituzionalizzazione della facoltà di procedere ad un’integrazione differenziata, attraverso il meccanismo della cooperazione rafforzata (v. Principio della cooperazione rafforzata).
Tuttavia, consci dell’enorme potenzialità destabilizzante della materia, gli estensori del nuovo Trattato hanno imposto precisi vincoli alla cooperazione rafforzata per tutti i >pilastri dell’Unione europea (v.). Ciò soprattutto allo scopo di salvaguardare l’acquis communautaire (v.) ed evitare che un utilizzo indiscriminato di tale facoltà possa portare ad una completa disgregazione dell’Unione.
Termine con il quale si indica quella forma di integrazione che consente agli Stati membri della Comunità di avanzare seguendo ritmi differenti e perseguendo obiettivi diversificati, sulla base delle proprie capacità ed esigenze.
L’origine dell’espressione può essere fatta risalire alla seconda metà degli anni sessanta, in coincidenza con le prime domande di adesione (v.) e i primi significativi sviluppi delle competenze comunitarie.
Fu in quel periodo infatti che cominciarono a manifestarsi difficoltà nel conciliare le innegabili diversità esistenti in seno alla Comunità a livello di sviluppo economico e di volontà politiche.
Nel 1965 fu presentata una prima proposta in tal senso, da parte del presidente della CEEA (v.) Louis Armand, nota come Europa à la carte (v.); si prospettava l’idea di un’Europa in cui ogni Stato avrebbe potuto scegliere gli accordi settoriali che più gli interessavano, al di là delle regole imposte dai trattati comunitari.
Lo sviluppo dell’integrazione comunitaria sarebbe pertanto dovuto procedere attraverso forme di cooperazione intergovernativa (v.).
Sulla base di questa proposta che fu avviata la cooperazione in materia di ricerca scientifica e tecnologica (v. COST) fra i sei paesi della Comunità e i tredici paesi europei che non facevano allora parte della CEE.
Nell’ambito delle proposte relative al progressivo rafforzamento del serpente monetario (v.), nel 1975 si fece strada l’idea del primo ministro belga Leo Tindemans, relativa ad un’Europa a più velocità (v.). Muovendo dalla constatazione delle divergenze degli Stati membri in campo economico e monetario, Tindemans avanzò l’idea di un’Europa in cui l’obiettivo finale fosse comune a tutti i membri, ma in cui gli impegni presi potessero essere assolti in tempi diversi, secondo scadenze predeterminate.
Più volte ripresa negli anni successivi, l’idea di un’Europa a più velocità ha trovato la prima concreta applicazione nel campo dell’unione economica e monetaria (v. UEM) al momento della stipula del Trattato di Maastricht (v.).
In seguito alla creazione dello SME (v.), avvenuta nel 1978, si cominciò a profilare il problema dei contributi che i singoli Stati membri erano tenuti a versare al bilancio comunitario (v.).
Il sistema delle risorse proprie (v.) cominciò difatti a vacillare nel momento in cui la Gran Bretagna, trovandosi in testa ai contributori netti (v.), richiese la restituzione dei contributi versati.
Fra le proposte avanzate in tema di modifiche alla struttura del bilancio, emerse quella relativa ad un’Europa a geometria variabile (v.), termine coniato da Jacques Delors (v.) nel 1980 per ipotizzare uno scenario europeo nel quale una parte degli Stati membri potessero proseguire l’integrazione in alcuni settori cooperando nel quadro delle regole comunitarie, mentre gli Stati dissenzienti sarebbero stati liberi di non aderirvi.
Il Trattato di Maastricht ha in seguito tradotto questa ipotesi nella concessione di opting out (v.), accordati al Regno Unito e alla Danimarca nell’applicazione di alcune politiche comunitarie (v.).
Un’altra tipologia di integrazione differenziata si profilò dopo l’entrata in vigore dell’Atto unico europeo (v. AUE), parallelamente all’esigenza di definire un modello di Unione politica da affiancare all’Unione economica e monetaria.
Fu la volta della formula dei cerchi concentrici (v.) dettata da Delors nel 1988, la quale prevedeva una nuova costruzione dell’Europa eretta sulla base dei diversi livelli di integrazione raggiunti dagli Stati europei. A seconda del livello raggiunto, poteva essere applicato il metodo comunitario (v.) o il metodo intergovernativo (v.).
Il dibattito sull’integrazione differenziata riprese nel 1995, in seguito all’ingresso nella Comunità di Austria, Finlandia e Svezia e alla prospettiva di un’apertura ai paesi dell’Europa centro-orientale (v. PECO).
Nell’ottica di un ampliamento (v.) di questa portata, emerse difatti l’esigenza di trovare una soluzione alle conflittualità di natura politica, economica e sociale che si sarebbero inevitabilmente create all’interno dell’Unione senza per questo rischiare di compromettere il livello di integrazione raggiunto fino a quel momento.
Una prima proposta fu avanzata dal Regno Unito.
L’allora primo ministro britannico John Major si mostrò favorevole ad una integrazione debole, idea che fu successivamente rilanciata nel 1995 dal Centro di ricerca per la politica economica (CEPR).
L’ipotesi prevedeva una forma di Unione decentrata in cui alcune politiche, come la politica commerciale, la politica ambientale e gli aiuti allo sviluppo, sarebbero state inserite in un quadro internazionale più vasto, mentre le altre sarebbero state affidate alla competenza esclusiva degli Stati membri. Si operava pertanto una distinzione fra le componenti fondamentali dell’Unione comune a tutti gli Stati membri e quelle supplementari, per le quali non esiste concordanza di opinioni. La base comune avrebbe inoltre dovuto escludere i settori di competenza del secondo pilastro (v.) e del terzo pilastro (v.) dell’Unione. Le regole per l’istituzione di partnership aperte avrebbero dovuto essere fissate dal trattato, mentre le regole interne di ogni partnership sarebbero state dettate da specifici accordi intervenuti fra gli Stati partecipanti.
Il secondo progetto fu di matrice tedesca. Secondo il partito del concelliere Kohl (v.), era indispensabile redigere un documento che si ispirasse al modello di Stato federale: al fine di evitare che l’integrazione europea procedesse soltanto sulla base della cooperazione intergovernativa, si rendeva necessario che il concetto di Europa a più velocità o delle geometrie variabili fosse istituzionalizzato nel Trattato.
Si trattava di operare un’integrazione forte, attuata attraverso la formazione di un nucleo duro (v.) di paesi, i quali avrebbero potuto instaurare una collaborazione più approfondita fra loro in alcuni settori, anche senza la volontà comune di tutti gli Stati membri. Di questo nuclo sarebbero però potuti entrare a far parte tutti i paesi della Comunità , non appena fossero stati pronti ad assumersi gli impegni presi dal gruppo più solido.
L’idea di procedere ad un’integrazione forte sulla base del modello tedesco fu accolta nel 1996 dalla Conferenza intergovernativa (v. CIG) incaricata della revisione del Trattato di Maastricht.
Con il Trattato di Amsterdam (v.) si è giunti pertanto alla istituzionalizzazione della facoltà di procedere ad un’integrazione differenziata, attraverso il meccanismo della cooperazione rafforzata (v. Principio della cooperazione rafforzata).
Tuttavia, consci dell’enorme potenzialità destabilizzante della materia, gli estensori del nuovo Trattato hanno imposto precisi vincoli alla cooperazione rafforzata per tutti i >pilastri dell’Unione europea (v.). Ciò soprattutto allo scopo di salvaguardare l’acquis communautaire (v.) ed evitare che un utilizzo indiscriminato di tale facoltà possa portare ad una completa disgregazione dell’Unione.