Diritto di stabilimento
Diritto di stabilimento artt. 43-48 Trattato CE
S’intende per diritto di stabilimento la libertà, garantita ai cittadini comunitari, di stabilirsi in uno Stato membro diverso dal proprio per esercitarvi un’attività non salariata.
La libertà di stabilimento importa quindi:
— l’accesso alle attività non salariate e al loro esercizio sia per le persone fisiche che per quelle giuridiche (liberi professionisti, imprenditori, società);
— l’applicazione delle stesse condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini (art. 43 Trattato CE).
Si è soliti operare una differenza tra l’ipotesi di stabilimento a titolo principale e a titolo secondario. Nel primo caso, un soggetto intende svolgere un’attività economicamente rilevante in uno Stato diverso da quello di origine, rinunciando ad essere stabilito in quest’ultimo. Il secondo è il caso, invece, di un soggetto che intende conservare lo stabilimento nello Stato di origine, accanto a quello nel nuovo Stato. La differenza è rilevante per quanto riguarda le persone giuridiche: infatti, il diritto di stabilimento di una società da uno Stato all’altro prevede il trasferimento della sede sociale effettiva o reale. Ciò non sempre è possibile per le diversità legislative che possono esservi tra diversi Stati membri. Per superare l’ostacolo si è riconosciuto alle società il diritto di stabilirsi a titolo secondario in uno Stato membro, diverso da quello di appartenenza, attraverso la creazione di succursali, agenzie o filiali (in questo senso anche l’articolo 43 del Trattato CE).
Quanto all’attuazione del diritto di stabilimento, il trattato prevedeva che le restrizioni alla libertà di stabilimento fossero gradatamente soppresse durante il periodo transitorio (v.), sulla base di un Programma generale (v.) stabilito dal Consiglio dell’Unione europea.
Il Programma fu emanato nel 1961; tuttavia le direttive (v.) di attuazione di tale Programma (che lo stesso Consiglio doveva emanare) procedettero piuttosto a rilento.
Nel 1974 la Corte di Giustizia affermò che la norma contenuta nell’art. 43, prescrivendo un obbligo di risultato preciso, il cui adempimento poteva essere facilitato, ma non condizionato, dagli atti di applicazione, era divenuta direttamente applicabile allo scadere del periodo transitorio (v. Diretta applicabilità del diritto comunitario): pertanto le direttive volte ad attuare la norma del trattamento nazionale erano divenute superflue.
Conservano invece importanza le direttive volte a stabilire misure per favorire e facilitare l’effettivo esercizio delle libertà previste dal trattato, oltre a quelle volte a coordinare le disposizioni nazionali relative ad esempio all’esercizio di talune professioni (sentenza Reyners).
Secondo l’art. 45 sono escluse dal diritto di stabilimento le attività che partecipano, sia pure occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri, mentre a norma dell’art. 46 gli Stati possono limitare la libertà ad esso relativa per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica.
S’intende per diritto di stabilimento la libertà, garantita ai cittadini comunitari, di stabilirsi in uno Stato membro diverso dal proprio per esercitarvi un’attività non salariata.
La libertà di stabilimento importa quindi:
— l’accesso alle attività non salariate e al loro esercizio sia per le persone fisiche che per quelle giuridiche (liberi professionisti, imprenditori, società);
— l’applicazione delle stesse condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini (art. 43 Trattato CE).
Si è soliti operare una differenza tra l’ipotesi di stabilimento a titolo principale e a titolo secondario. Nel primo caso, un soggetto intende svolgere un’attività economicamente rilevante in uno Stato diverso da quello di origine, rinunciando ad essere stabilito in quest’ultimo. Il secondo è il caso, invece, di un soggetto che intende conservare lo stabilimento nello Stato di origine, accanto a quello nel nuovo Stato. La differenza è rilevante per quanto riguarda le persone giuridiche: infatti, il diritto di stabilimento di una società da uno Stato all’altro prevede il trasferimento della sede sociale effettiva o reale. Ciò non sempre è possibile per le diversità legislative che possono esservi tra diversi Stati membri. Per superare l’ostacolo si è riconosciuto alle società il diritto di stabilirsi a titolo secondario in uno Stato membro, diverso da quello di appartenenza, attraverso la creazione di succursali, agenzie o filiali (in questo senso anche l’articolo 43 del Trattato CE).
Quanto all’attuazione del diritto di stabilimento, il trattato prevedeva che le restrizioni alla libertà di stabilimento fossero gradatamente soppresse durante il periodo transitorio (v.), sulla base di un Programma generale (v.) stabilito dal Consiglio dell’Unione europea.
Il Programma fu emanato nel 1961; tuttavia le direttive (v.) di attuazione di tale Programma (che lo stesso Consiglio doveva emanare) procedettero piuttosto a rilento.
Nel 1974 la Corte di Giustizia affermò che la norma contenuta nell’art. 43, prescrivendo un obbligo di risultato preciso, il cui adempimento poteva essere facilitato, ma non condizionato, dagli atti di applicazione, era divenuta direttamente applicabile allo scadere del periodo transitorio (v. Diretta applicabilità del diritto comunitario): pertanto le direttive volte ad attuare la norma del trattamento nazionale erano divenute superflue.
Conservano invece importanza le direttive volte a stabilire misure per favorire e facilitare l’effettivo esercizio delle libertà previste dal trattato, oltre a quelle volte a coordinare le disposizioni nazionali relative ad esempio all’esercizio di talune professioni (sentenza Reyners).
Secondo l’art. 45 sono escluse dal diritto di stabilimento le attività che partecipano, sia pure occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri, mentre a norma dell’art. 46 gli Stati possono limitare la libertà ad esso relativa per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica.