Verità
Verità
Concetto la cui definizione e caratterizzazione ha da sempre costituito uno dei fondamentali problemi della filosofia occidentale.
Aristotele nella Metafisica limitava l’attribuzione delle qualifiche alternative di «vero» e «falso» alle sole proposizioni dichiarative, ossia a quelle proposizioni che, affermando o negando qualcosa, sono fornite di significato. La significatività è per Aristotele il presupposto necessario affinché abbia senso parlare di verità o falsità: una dichiarazione del tutto priva di significato non potrebbe essere né vera né falsa.
Secondo il filosofo greco la (—) è la conformità di una proposizione alla realtà dei fatti: una dichiarazione è vera se i fatti sono come essa li descrive, è falsa in caso contrario. Le idee isolatamente pensate non sono né vere né false e la (—) diventa possibile solo quando si afferma qualcosa di qualcosa, ossia quando il giudizio interviene a porre in relazione tra loro le nozioni. Vi è dunque una assoluta corrispondenza tra la dichiarazione ed i fatti, in rapporto alla (—), poiché se da un lato la (—) di una proposizione presuppone che i fatti siano come essa dice che sono, dall’altro la proposizione è vera perché i fatti sono come essa dice che sono.
Tale nozione della (—) come corrispondenza fu ripresa da Tommaso d’Aquino, il quale affermò che essa è « l’adeguazione dell’intelletto e della cosa» ed è rimasta prevalente fino al secolo XX. Il logico e filosofo inglese B. Russell (1872 - 1970), ad esempio, ha affermato che ciò che rende vera (o falsa) una determinata proposizione e determina il conseguente convincimento è l’esistenza (o l’inesistenza) di una relazione (la «corrispondenza», appunto) tra la proposizione stessa ed i fatti che essa descrive, indipendentemente dall’esperienza che si sia avuta su tali fatti.
Alla concezione della (—) come corrispondenza si sono contrapposte diverse altre concezioni. Secondo la concezione della verità come coerenza, sostenuta ad esempio dal filosofo austriaco O. Neurath (1882-1945), una proposizione può essere qualificata vera solo se risulta coerente con altre proposizioni con cui viene confrontata.
Il filosofo statunitense W. James (1842-1910), esponente della concezione pragmatistica della verità, sostenne invece che una credenza è vera in quanto è utile al singolo individuo.
Per la concezione performativa [vedi Performativo] o esecutiva, espressa ad esempio dal filosofo inglese P.F. Strawson (1919), qualificare una proposizione come «vera» non aggiunge nulla al significato di essa ma esprime semplicemente un’approvazione, un’adesione: dire, infatti, x è vero equivale a dire approvo x, allo stesso modo in cui dire «lo giuro» non descrive alcunché ma si identifica direttamente con l’esecuzione dell’azione del giurare.
Concetto la cui definizione e caratterizzazione ha da sempre costituito uno dei fondamentali problemi della filosofia occidentale.
Aristotele nella Metafisica limitava l’attribuzione delle qualifiche alternative di «vero» e «falso» alle sole proposizioni dichiarative, ossia a quelle proposizioni che, affermando o negando qualcosa, sono fornite di significato. La significatività è per Aristotele il presupposto necessario affinché abbia senso parlare di verità o falsità: una dichiarazione del tutto priva di significato non potrebbe essere né vera né falsa.
Secondo il filosofo greco la (—) è la conformità di una proposizione alla realtà dei fatti: una dichiarazione è vera se i fatti sono come essa li descrive, è falsa in caso contrario. Le idee isolatamente pensate non sono né vere né false e la (—) diventa possibile solo quando si afferma qualcosa di qualcosa, ossia quando il giudizio interviene a porre in relazione tra loro le nozioni. Vi è dunque una assoluta corrispondenza tra la dichiarazione ed i fatti, in rapporto alla (—), poiché se da un lato la (—) di una proposizione presuppone che i fatti siano come essa dice che sono, dall’altro la proposizione è vera perché i fatti sono come essa dice che sono.
Tale nozione della (—) come corrispondenza fu ripresa da Tommaso d’Aquino, il quale affermò che essa è « l’adeguazione dell’intelletto e della cosa» ed è rimasta prevalente fino al secolo XX. Il logico e filosofo inglese B. Russell (1872 - 1970), ad esempio, ha affermato che ciò che rende vera (o falsa) una determinata proposizione e determina il conseguente convincimento è l’esistenza (o l’inesistenza) di una relazione (la «corrispondenza», appunto) tra la proposizione stessa ed i fatti che essa descrive, indipendentemente dall’esperienza che si sia avuta su tali fatti.
Alla concezione della (—) come corrispondenza si sono contrapposte diverse altre concezioni. Secondo la concezione della verità come coerenza, sostenuta ad esempio dal filosofo austriaco O. Neurath (1882-1945), una proposizione può essere qualificata vera solo se risulta coerente con altre proposizioni con cui viene confrontata.
Il filosofo statunitense W. James (1842-1910), esponente della concezione pragmatistica della verità, sostenne invece che una credenza è vera in quanto è utile al singolo individuo.
Per la concezione performativa [vedi Performativo] o esecutiva, espressa ad esempio dal filosofo inglese P.F. Strawson (1919), qualificare una proposizione come «vera» non aggiunge nulla al significato di essa ma esprime semplicemente un’approvazione, un’adesione: dire, infatti, x è vero equivale a dire approvo x, allo stesso modo in cui dire «lo giuro» non descrive alcunché ma si identifica direttamente con l’esecuzione dell’azione del giurare.