Valore
Valore
Concetto che in senso stretto attiene alla sfera economica. In un senso più ampio, è tutto ciò verso cui si esprime un apprezzamento positivo: come sinonimo di giusto, vero, buono, bello attiene all’intero ambito della morale. La teoria dei valori prende il nome di assiologia.
Il concetto di (—), nel senso di ciò che è buono ed utile fu già noto ai sofisti. Secondo Protagora (486 ca.-410 a.C.) non esistono il bene ed il vero in senso assoluto: essi sono relativi e mutevoli poiché ogni uomo è misura di ciò che ha per lui valore.
Platone, opponendosi al relativismo etico, Protagora sottolineò invece l’essenza unitaria e universale dei concetti di bene e vero, che da quel momento furono posto a fondamento di ogni nazione di (—). Fino al sec. XVIII il concetto di (—) si identificò con i concetti empirici di essere e di verità.
La distinzione kantiana tra «essere» (realtà empirica) e «dover essere» (il mondo delle norme e dei fini oggettivamente ed universalmente validi, dotati di una essenzialità non empirica ma metaempirica) aprì la strada ad una concezione dei valori come entità autonome e non attinenti alla sfera del concretamento esistente.
Dalla metà del sec. XIX, per influenza del neocriticismo e di Nietzsche si assiste ad un rinnovato interesse verso una trattazione indipendente del problema dei valori e nell’uso filosofico la nozione di (—) sostituisce definitivamente quello di bene.
La tendenza a garantire l’assolutezza e l’immutabilità dei valori viene espressa da W. Windelland (1848-1915), da H. Rickert (1863-1936) e in generale dalla scuola di Baden, secondo cui l’eterna ricerca di valori universali è ciò che caratterizza l’uomo come soggetto storico distinto da ogni altro essere naturale. Alla filosofia dei valori spetta dunque il compito di interpretare i valori espressi in ogni fatto storico.
L’esigenza della storicizzazione e relativizzazione dei valori si esprime anche nello storicismo di W. Dilthey (1833-1911) e di G. Simmel (1858-1918) e nell’analisi di M. Weber.
Secondo il sociologo tedesco, i valori che orientano l’azione dell’uomo nella storia mostrano tutta la loro conflittualità nel momento in cui si realizzano. L’uomo, quindi, è costretto ad operare una scelta tra valori che non sono affatto validi incondizionatamente.
Per M. Scheler (1874-1928), che affrontò il campo dell’etica con metodo fenomenologico, i valori non sono prodotti dall’uomo, né sono riducibili a oggetti di desideri. I valori sono oggettivi, assoluti ed eterni e possono essere colti solo intuitivamente, attraverso la pura esperienza emozionale.
Il carattere obiettivo dei valori fu ulteriormente sottolineato da un altro esponente della scuola fenomenologica, N. Hartmann (1882-1950), secondo il quale essi sussistono indipendentemente dalla loro percezione.
Alla concezione della scuola fenomenologica si oppose la filosofia «ideo-esistenziale» di R. Le Senne (1883-1954), secondo il quale il (—) è l’Assoluto (unico e infinito) verso il quale devono tendere tutte le determinazioni che limitano il soggetto. A quest’ultimo, tuttavia, non è dato percepire il (—) nella sua immediatezza ma solo nelle sue manifestazioni particolari.
Concetto che in senso stretto attiene alla sfera economica. In un senso più ampio, è tutto ciò verso cui si esprime un apprezzamento positivo: come sinonimo di giusto, vero, buono, bello attiene all’intero ambito della morale. La teoria dei valori prende il nome di assiologia.
Il concetto di (—), nel senso di ciò che è buono ed utile fu già noto ai sofisti. Secondo Protagora (486 ca.-410 a.C.) non esistono il bene ed il vero in senso assoluto: essi sono relativi e mutevoli poiché ogni uomo è misura di ciò che ha per lui valore.
Platone, opponendosi al relativismo etico, Protagora sottolineò invece l’essenza unitaria e universale dei concetti di bene e vero, che da quel momento furono posto a fondamento di ogni nazione di (—). Fino al sec. XVIII il concetto di (—) si identificò con i concetti empirici di essere e di verità.
La distinzione kantiana tra «essere» (realtà empirica) e «dover essere» (il mondo delle norme e dei fini oggettivamente ed universalmente validi, dotati di una essenzialità non empirica ma metaempirica) aprì la strada ad una concezione dei valori come entità autonome e non attinenti alla sfera del concretamento esistente.
Dalla metà del sec. XIX, per influenza del neocriticismo e di Nietzsche si assiste ad un rinnovato interesse verso una trattazione indipendente del problema dei valori e nell’uso filosofico la nozione di (—) sostituisce definitivamente quello di bene.
La tendenza a garantire l’assolutezza e l’immutabilità dei valori viene espressa da W. Windelland (1848-1915), da H. Rickert (1863-1936) e in generale dalla scuola di Baden, secondo cui l’eterna ricerca di valori universali è ciò che caratterizza l’uomo come soggetto storico distinto da ogni altro essere naturale. Alla filosofia dei valori spetta dunque il compito di interpretare i valori espressi in ogni fatto storico.
L’esigenza della storicizzazione e relativizzazione dei valori si esprime anche nello storicismo di W. Dilthey (1833-1911) e di G. Simmel (1858-1918) e nell’analisi di M. Weber.
Secondo il sociologo tedesco, i valori che orientano l’azione dell’uomo nella storia mostrano tutta la loro conflittualità nel momento in cui si realizzano. L’uomo, quindi, è costretto ad operare una scelta tra valori che non sono affatto validi incondizionatamente.
Per M. Scheler (1874-1928), che affrontò il campo dell’etica con metodo fenomenologico, i valori non sono prodotti dall’uomo, né sono riducibili a oggetti di desideri. I valori sono oggettivi, assoluti ed eterni e possono essere colti solo intuitivamente, attraverso la pura esperienza emozionale.
Il carattere obiettivo dei valori fu ulteriormente sottolineato da un altro esponente della scuola fenomenologica, N. Hartmann (1882-1950), secondo il quale essi sussistono indipendentemente dalla loro percezione.
Alla concezione della scuola fenomenologica si oppose la filosofia «ideo-esistenziale» di R. Le Senne (1883-1954), secondo il quale il (—) è l’Assoluto (unico e infinito) verso il quale devono tendere tutte le determinazioni che limitano il soggetto. A quest’ultimo, tuttavia, non è dato percepire il (—) nella sua immediatezza ma solo nelle sue manifestazioni particolari.