Validità
Validità
In teoria generale del diritto è l’appartenenza di una norma ad un sistema di norme (o ordinamento). Una norma giuridica è valida se è conforme ai criteri (relativi al contenuto o alle modalità di produzione o ad entrambi) che il singono ordinamento stabilisce per l’appartenenza ad esso.
Il concetto di (—) è dunque un concetto sostanzialmente internormativo: la (—) di una norma dipende infatti dai suoi rapporti con altre norme (cd. metanorme) e, in ultima analisi, con la norma fondamentale [vedi Grundnorm].
Il maggior teorico della validità in senso internormativo è H. Kelsen. Egli, tuttavia, conferendo all’ordinamento giuridico una struttura a gradi, lega indissolubilmente il concetto di (—) in senso internormativo con quello di esistenza specifica di una norma. Infatti, per Kelsen una norma giuridica esiste solo se è stata prodotta in conformità ad una norma di grado superiore. Solo la norma fondamentale (posta al vertice della piramide normativa) esiste ed è valida, sebbene non sia stata prodotta da nessuno.
La confusione attuata da Kelsen tra la questione dell’appartenenza di una norma ad un sistema di altre norme e la questione dell’esistenza di un ordinamento giuridico fu invece evitata dal filosofo del diritto britannico Hart. Egli definì la (—) come mera appartenenza di una norma ad un ordinamento e trasformò la kelseniana norma fondamentale in norma di riconoscimento, ossia una norma di diritto positivo che stabilisce i criteri di (—) in un sistela normativo e relativamente alla quale è inutile chiedersi se sia valida o meno.
Il filosofo danese A. Ross, esponente del realismo giuridico attribuì a Kelsen l’uso del concetto di (—) anche in un terzo significato, ossia come sinonimo di forza obbligante.
Secondo Ross, invece, la forza obbligante non è una qualità intrinseca di tutte le norme, ma solo di quelle effettivamente operanti in una realtà sociale. Prescindere dalla effettività della norma e considerare obbligatorie tutte le norme significa, per Ross, accettare l’ideologia del giuspositivismo estremo, che qualifica di per sé giusto ogni diritto positivo.
Intorno al concetto di (—) si scontrano i principali orientamenti teorico-giuridici contemporanei.
Il giusnaturalismo, considerando valide le norme conformi al diritto naturale, riduce la (—) alla giustizia e presenta il giudizio di validità come un giudizio di valore.
Nel giuspositivismo la (—) prescinde dalla giustizia ed è attribuita esclusivamente alle norme prodotte dai soggetti investiti di autorità dalla norma fondamentale.
Il realismo giuridico, infine, prescinde dalla dimensione normativa interna del diritto (ossia dalla validità formale effettive e dalla giustizia) e considera valide solo le norme effettive [vedi Effettività], ossia effettivamente applicate dai giudici nei tribunali.
I giuristi usano il concetto di (—) anche in riferimento agli atti giuridici, talvolta utilizzando come sinonimi i concetti di efficacia, perfezione, esistenza, giuridicità.
Tuttavia, la definizione di (—) come appartenenza ad un ordinamento, elaborata dalla teoria generale, non appare agevolmente utilizzabile in riferimento anche agli atti giuridici. Una soluzione potrebbe essere offerta dalla introduzione di ulteriori concetti di (—): oltre alla (—) come appartenenza all’ordinamento, si potrebbe configurare ad esempio una (—) come efficacia nell’ordinamento.
In teoria generale del diritto è l’appartenenza di una norma ad un sistema di norme (o ordinamento). Una norma giuridica è valida se è conforme ai criteri (relativi al contenuto o alle modalità di produzione o ad entrambi) che il singono ordinamento stabilisce per l’appartenenza ad esso.
Il concetto di (—) è dunque un concetto sostanzialmente internormativo: la (—) di una norma dipende infatti dai suoi rapporti con altre norme (cd. metanorme) e, in ultima analisi, con la norma fondamentale [vedi Grundnorm].
Il maggior teorico della validità in senso internormativo è H. Kelsen. Egli, tuttavia, conferendo all’ordinamento giuridico una struttura a gradi, lega indissolubilmente il concetto di (—) in senso internormativo con quello di esistenza specifica di una norma. Infatti, per Kelsen una norma giuridica esiste solo se è stata prodotta in conformità ad una norma di grado superiore. Solo la norma fondamentale (posta al vertice della piramide normativa) esiste ed è valida, sebbene non sia stata prodotta da nessuno.
La confusione attuata da Kelsen tra la questione dell’appartenenza di una norma ad un sistema di altre norme e la questione dell’esistenza di un ordinamento giuridico fu invece evitata dal filosofo del diritto britannico Hart. Egli definì la (—) come mera appartenenza di una norma ad un ordinamento e trasformò la kelseniana norma fondamentale in norma di riconoscimento, ossia una norma di diritto positivo che stabilisce i criteri di (—) in un sistela normativo e relativamente alla quale è inutile chiedersi se sia valida o meno.
Il filosofo danese A. Ross, esponente del realismo giuridico attribuì a Kelsen l’uso del concetto di (—) anche in un terzo significato, ossia come sinonimo di forza obbligante.
Secondo Ross, invece, la forza obbligante non è una qualità intrinseca di tutte le norme, ma solo di quelle effettivamente operanti in una realtà sociale. Prescindere dalla effettività della norma e considerare obbligatorie tutte le norme significa, per Ross, accettare l’ideologia del giuspositivismo estremo, che qualifica di per sé giusto ogni diritto positivo.
Intorno al concetto di (—) si scontrano i principali orientamenti teorico-giuridici contemporanei.
Il giusnaturalismo, considerando valide le norme conformi al diritto naturale, riduce la (—) alla giustizia e presenta il giudizio di validità come un giudizio di valore.
Nel giuspositivismo la (—) prescinde dalla giustizia ed è attribuita esclusivamente alle norme prodotte dai soggetti investiti di autorità dalla norma fondamentale.
Il realismo giuridico, infine, prescinde dalla dimensione normativa interna del diritto (ossia dalla validità formale effettive e dalla giustizia) e considera valide solo le norme effettive [vedi Effettività], ossia effettivamente applicate dai giudici nei tribunali.
I giuristi usano il concetto di (—) anche in riferimento agli atti giuridici, talvolta utilizzando come sinonimi i concetti di efficacia, perfezione, esistenza, giuridicità.
Tuttavia, la definizione di (—) come appartenenza ad un ordinamento, elaborata dalla teoria generale, non appare agevolmente utilizzabile in riferimento anche agli atti giuridici. Una soluzione potrebbe essere offerta dalla introduzione di ulteriori concetti di (—): oltre alla (—) come appartenenza all’ordinamento, si potrebbe configurare ad esempio una (—) come efficacia nell’ordinamento.