Tolleranza

Tolleranza

La (—) si può definire come la capacità di accettare idee e atteggiamenti diversi dai propri o anche come il rispetto delle idee altrui, in special modo in campo politico e religioso. La (—) nasce come concetto legato prevalentemente alla religione: l’uso del termine è infatti strettamente collegato al dibattito sulla repressione delle religioni, sviluppatosi in seguito alla Riforma protestante dei secoli XVI-XVII.
Anche nell’antichità si erano conosciute repressioni, come ad esempio nel mondo romano, dove la persecuzione per motivi religiosi era motivata politicamente, poiché l’imperatore aveva non solo autorità politica, ma anche religiosa. I dissidenti religiosi, per difendersi, invocavano l’argomento secondo il quale il dissenso religioso non significava anche dissenso politico; essi sostenevano che si poteva essere buoni sudditi, pur professando un differente culto religioso. Tale argomento fu sostenuto dalle comunità cristiane perseguitate, ma il cristianesimo, una volta diventato culto di Stato, a sua volta perseguitò i dissenzienti, dimenticando quanto espresso dai suoi padri pochi secoli prima. Questo paradosso trova la sua spiegazione nel fatto che i cristiani ritenevano che la verità dovesse essere tutelata in qualsiasi modo.
Nel Medioevo l’eresia non solo era considerata peccato ma anche crimen, quindi la sua professione aveva effetti sia religiosi sia civili. In questo periodo Marsilio da Padova fu uno dei pochi teorici a schierarsi a favore della (—) nel Defensor pacis (1324), in cui egli sostenne che la coscienza in quanto tale è incoercibile.
Il principio della (—) iniziò a proporsi come un elemento indispensabile della vita dell’Occidente solo con la Riforma. È interessante notare che la (—) non fu fatta propria neanche dai riformati, come stanno a dimostrare alcuni episodi emblematici come il rogo di Michele Serveto nel 1553, ad opera dei calvinisti.
Si sostiene che la (—) fu affermata per la prima volta in maniera esplicita dai sociniani e dagli anabattisti, movimenti entrambi legati al protestantesimo. I sociniani propugnavano un cristianesimo razionale e soprattutto pacifista, così come gli anabattisti, che a loro volta affermavano non solo la non-violenza, ma rifiutavano anche l’ingerenza delle autorità politiche nelle questioni religiose: in numerosi scritti a favore della (—) si sostiene la riduzione dei dogmi all’essenziale, proprio per dare vita ad un’intesa per la reciproca (—).
Nel 1580 Michel de Montaigne difendeva la libertà di coscienza. Durante le guerre di religione in Francia il gruppo dei politiques, vale a dire la fazione politica fautrice di un cristianesimo pacificatore e di un’autorità regia forte, sostenne che all’interno di uno stesso Stato si potessero tollerare più religioni, come loro raccomandava la (—) religiosa per ragioni di convenienza dello Stato stesso. Infatti il maggiore esponente dei politiques, vale a dire Jean Bodin, non negò il diritto alla persecuzione ma sostenne la perniciosità di questa per lo Stato, per cui il sovrano deve accettare la (—) per prudenza politica. Nel Colloquium Heptaplomeres egli sostiene che, se praticate con rettitudine, tutte le religioni sono gradite a Dio. A sua volta Grozio sostenne che la religione non si può imporre per legge o tantomeno con le armi. Ma la prima difesa sistematica della (—) fu opera di Baruch Spinoza (1632 - 1677), il quale riconosceva che la religione pubblica, costituita dai riti e dall’organizzazione ecclesiastica è un potente strumento per garantire l’unità politica; per tale motivo essa deve essere posta sotto il controllo dell’autorità politica, ma questo controllo non vale quando si tratta di credenze speculative: in questo caso la libertà deve essere totale. Proprio con Spinoza nel Tractatus theologico-politicus (1670), per la prima volta la libertà di coscienza diventa libertà di pensiero. Il filosofo francese Pierre Bayle (1647-1706) sostenne che la fede poteva essere un pericolo per la società politica, poiché in suo nome si sarebbero potute perpetrare le peggiori violenze.
John Locke
nel 1689 pubblica l’Epistola sulla tolleranza, le cui argomentazioni vertono sulla libertà religiosa e sulla completa estraneità dello Stato in materia religiosa. Egli vede nel concetto di (—) il punto d’unione dei compiti e degli interessi dello Stato e della chiesa. Locke sostiene che lo Stato è una società umana il cui fine ultimo è la conservazione e la promozione bei «beni civili»: la vita, la libertà, l’integrità del corpo, l’immunità dal dolore, il possesso delle cose esterne; da ciò si evince che la salvezza delle anime non è più affidata al magistrato civile. La salvezza delle anime, per il filosofo inglese, dipende dalla fede, la quale non può essere inculcata con la coercizione, che è l’unico strumento di cui dispone lo Stato. La chiesa, argomenta Locke, è una società libera e volontaria di uomini che hanno fede in Dio per il raggiungimento dell’eterna salvezza delle anime. Anche per la chiesa quindi sarebbe inutile un ricorso alla forza, anche se poi egli sostiene che la chiesa può avere il potere di scomunica, sempre però, nel rispetto dei diritti civili di chi è scomunicato. Il filosofo difende la possibilità del carattere razionale della religione e in modo specifico del cristianesimo. Nell’Epistola la (—) non è però riconosciuta in maniera completa, infatti non sono «tollerati» i cattolici e gli atei, ma ciò nonostante essa rappresenta comunque la più importante espressione nell’età moderna di giustificazione della libertà di coscienza.
Dall’Illuminismo in poi, la maggior parte degli intellettuali accoglieranno il principio della (—). Voltaire nel Trattato sulla tolleranza (1763) sostiene che gli uomini debbono tollerarsi reciprocamente, perché tutti soggetti all’errore e all’instabilità. In tale periodo gli intellettuali esercitarono una positiva influenza sull’opinione pubblica e sui mutamenti che si ebbero a livello istituzionale.
Fino ad allora non essendo la (—) radicata nelle coscienze, ogni mezzo pubblicistico per bloccare l’intolleranza risultava inutile. Anche i trattati che mettevano fine alle guerre di religione non tenevano conto dei sudditi, infatti il principio del cuius regio eius religio («la religione sia di colui del quale è la regione»), sancito dalla pace di Augusta (1555), riconosceva alle minoranze solo il diritto all’esilio. Dalla metà del ’600 in poi si susseguiranno una serie di atti di (—), fino ad arrivare alla Dichiarazione d’indipendenza in America nel 1776 e alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nella Francia del 1789. Ed è proprio il diritto alla libertà religiosa ad essere affermato per primo: l’idea di (—) religiosa, divenuta un caposaldo del liberalismo, trovò sanzione in quasi tutte le legislazioni del XIX secolo.
Attualmente il principio di (—) è entrato a far parte della coscienza civile di quasi tutti i popoli del mondo. Essa appare indispensabile per affrontare le sfide poste dalla globalizzazione e dal pluralismo culturale. Tuttavia, ancora all’inizio del nuovo millennio, fenomeni diversi di intolleranza, razzismo, xenofobia appaiono pericolosamente presenti.
A tal proposito è interessante riproporre uno dei Pronunciamenti del Consiglio d’Europa in materia religiosa del 1993, che così recita: «L’importanza universale della libertà religiosa, come esposta nell’Articolo 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e nell’Articolo 9 della Convenzione Europea sui Diritti Umani, deve essere riaffermata. Su questa libertà poggiano le radici della dignità dell’uomo e la sua realizzazione implica la realizzazione di una società libera e democratica».