Schmitt, Carl

Schmitt, Carl (1888-1985)

Filosofo del diritto e teorico della politica tedesco. Fu allievo di Weber. Laureatosi in giurisprudenza nel 1910, insegnò diritto pubblico in varie università tedesche (Greisfwald, Bonn, Colonia e Berlino). Nel 1933 aderì al partito nazista; fu consigliere dello Stato prussiano e presidente dell’associazione dei giuristi nazionalsocialisti. Per le sue compromissioni col nazismo, nel 1945 fu dimesso dall’insegnamento e arrestato. Assolto successivamente, si ritirò a vita privata.
Tra i suoi principali scritti: La dittatura (1921); Teologia politica (1922, riscritto nel 1934); Il concetto del politico (1927, ristampato nel 1928); Il Custode della Costituzione (1931); Legalità e legittimità (1932); Il Leviatano nella dottrina dello Stato (1938); Il problema della legalità (1950), Il compimento della Riforma (1965); Le categorie del politico (1972; si tratta di una raccolta italiana di sei saggi curata da Pierangelo Schiera e Gianfranco Miglio).
Il suo pensiero fu fortemente influenzato da Hobbes, Hegel, Kierkegaard, Sorel, oltreché Weber e Benjamin.
Partendo dalla constatazione che nello Stato moderno non esiste più una legittimità tradizionale (come avveniva invece per le monarchie ereditarie), (—) si dedicò all’analisi dei fondamenti della sovranità dello Stato nel XX secolo. In costante polemica col normativismo di Kelsen, che identificava lo Stato con l’oggettiva impersonalità della norma, (—) sostenne che la sovranità si fonda non sulla norma [vedi Norma giuridica] ma su una decisione politica. Più precisamente, prima che si determini un ordine stabilito, entro il quale la norma possa efficacemente operare, esiste uno stato di eccezione, caratterizzato dall’assenza di norme. Sovrano è allora chi nello stato di eccezione riesce ad imporre la propria decisione, dando origine all’ordinamento giuridico. Sovrano è colui che a partire dall’eccezione, ossia dall’assenza di norme, decide instaurando un ordine. Il problema della decisione venne poi compiutamente analizzato ne Il Custode della Costituzione, ove il decisionismo è considerato un atto realizzato storicamente da quel complesso unitario che è il popolo.
In Dottrina della Costituzione il popolo, esercitando il potere costituente, crea la propria struttura politica attraverso una «decisione fondamentale».
Dal concreto stato di eccezione e dalla decisione che da esso prende le mosse e fonda un ordine, ha origine la politica. Questa origine è definita da (—) il «politico», ossia il legame, la relazione antitetica tra amico e nemico e si può determinare in qualsiasi ambito della vita associata. Laddove vi è relazione, in rapporto polemico, tra amico e nemico vi è politica. Il nemico è sempre nemico pubblico (hostis) e non l’avversario privato (inimicus) e può essere moralmente buono o esteticamente bello o economicamente vantaggioso ma è pur sempre l’«altro» dal punto di vista esistenziale, con cui è possibile la radicalizzazione di un conflitto non risolvibile attraverso il ricorso ad un sistema prestabilito di norme. La naturale conseguenza di tale contrapposizione è la guerra tra le nazioni. La guerra è il mezzo estremo della vera politica, che deve sapere individuare con certezza il nemico da neutralizzare.
A differenza di Hobbes e di quanti come lui avevano ritenuto possibile il superamento dei conflitti sociali nello Stato e nella sua legge astratta, (—) ritiene che la conflittualità, il «politico» appunto, resti pur sempre all’interno dell’ordine costituito e si frapponga alla sua supposta stabilità. Per essere pienamente efficace, dunque, il diritto pubblico non può negare la «politicità» della propria origine.