Rivoluzione

Rivoluzione

Nell’ambito della teoria politica il termine (—) indica un movimento di sovvertimento radicale e di solito violento dell’ordinamento di uno Stato, in seguito al quale si determinano sensibili modificazioni nel sistema giuridico-costituzionale e nella sfera socio-economica.
Il concetto di (—) era sconosciuto ai filosofi dell’antica Grecia e agli scrittori dell’età romana. Per Platone e Aristotele il passaggio da una forma di governo ad un’altra avveniva con frequenza ciclica, comportando essenzialmente un cambiamento nella composizione della classe egemone ma non sconvolgimenti tali da mutare anche l’assetto sociale ed economico.
Il sostantivo fu inventato nel secolo XVI per descrivere il ciclico ed ordinato movimento dei cieli e fu nel secolo successivo che esso venne usato con significato politico per indicare il ripristino di un ordine naturale violato dagli eccessi e dalle angherie di un regime dispotico. Durante la Rivoluzione francese (1789) il concetto di (—) mutò radicalmente: si rafforzò tra gli illuministi la fiducia nella possibilità di indirizzare il mutamento non verso il mero ripristino di uno stato di cose giusto ed ordinato, turbato dal malgoverno delle autorità politiche, ma verso la realizzazione di un ordinamento nuovo, che garantisse al popolo non solo la libertà ma la felicità.
Più tardi, per influsso del marxismo, la (—) fu intesa come l’inevitabile prodotto della contraddizione tra l’espansione delle forze produttive e gli ormai vecchi rapporti di produzione. Marx individuò nella (—) del proletariato il momento in cui si sarebbe posto fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e si sarebbe raggiunta l’uguaglianza sociale. Il lavoratore, finalmente consapevole della propria forza produttiva, sarebbe stato libero e felice. La previsione di Marx non si è avverata ma da quel momento in poi la (—) è stata intesa come la soluzione valida per qualunque società oppressa o alle prese con problemi di sviluppo economico.
Nel corso dei secoli sono state formulate diverse teorie sulle cause scatenanti la (—). Tra queste possono avere particolare rilievo l’aspirazione di un popolo all’indipendenza nazionale e la negazione, da parte delle autorità costituite, dei diritti politici a gruppi sociali in ascesa e consapevoli della propria forza nella società. Aristotele ascrisse l’origine dell’impulso rivoluzionario alla naturale aspirazione degli uomini all’uguaglianza. Nel secolo XIX Tocqueville individuò nella (—) una semplice spinta all’inevitabile processo di adeguamento dello stato politico allo stato sociale, attuata non dai più poveri ed oppressi in assoluto, ma da coloro che pur dotati di determinate caratteristiche (denaro, istruzione) venivano da un regime conservatore esclusi da ogni possibilità di inserimento. Marx indicò la causa della (—) nel progressivo impoverimento o in un non adeguato miglioramento delle condizioni di vita del proletariato. Ad ogni modo, indipendentemente dall’origine scatenante, solitamente la (—) genera guerre civili. Infatti, i mutamenti costituzionali, sociali ed economici che con essa i rivoluzionari tentano di introdurre (facendo leva sul consenso della maggior parte della popolazione) non possono essere pacificamente accettati dalle forze politiche al potere. Sia queste ultime, sia i rivoluzionari, faranno allora ricorso a strumenti violenti per difendere gli interessi in gioco, dando luogo ad un conflitto civile di dimensioni e di durata commisurata all’entità delle componenti sociali coinvolte.
Rivoluzioni di importanza fondamentale per l’umanità furono la (—) americana (1763-1787), da cui ebbe origine il primo Stato democratico moderno; la (—) francese (1789-1799), che pose fine all’ancien régime in Francia; le rivoluzioni nazionali del secolo XIX in Europa e del XX secolo nel resto del mondo; la rivoluzione d’ottobre (7 novembre 1917), condotta in nome del proletariato.