Hobbes, Thomas

Hobbes, Thomas (1588 - 1679)

Filosofo empirista inglese. Esponente del giusnaturalismo seicentesco, modificò in senso maggiormente assolutistico le premesse di Grozio.
Scrisse il De cive (1642), il De corpore (1655), il De homine (1658).
La teoria politica di (—) è espressa magistralmente in un’opera del 1651 intitolata Leviathan, dal nome del famoso mostro biblico nel quale l’autore identifica lo Stato, spaventosa creazione artificiale dell’uomo. Egli individua l’origine dello Stato in un patto sociale tra gli individui. Anteriormente alla nascita di una società civile gli uomini vivono in uno stato di natura che non è caratterizzato, a differenza di quanto teorizzava Grozio, dalla pacifica convivenza e dalla tolleranza, ma è dominato dall’egoismo, dalla malvagità e dal predominio del più forte. L’uomo si crede libero ma in realtà è mosso esclusivamente dalle proprie passioni ed aspira a godere di tutto ciò che gli può assicurare benessere e soddisfazione. Dal diritto di tutti su tutto deriva necessariamente l’eterna lotta di tutti contro tutti (homo homini lupus) ma poiché tale lotta è estremamente violenta e tormentosa, gli individui, indotti da considerazioni puramente utilitaristiche e allo scopo di garantire la propria conservazione, scelgono di privarsi dei propri diritti e delle proprie libertà naturali per trasferirli con un patto ad un sovrano e dare vita allo Stato. In virtù di tale patto gli uomini passano da un precario stato di natura ad un pacifico Stato civile, in cui non vi è più l’illimitata libertà di tutti nei confronti di tutti ed una sostanziale uguaglianza ma, per converso, viene utilitaristicamente garantita a ciascun individuo la sicurezza e la sopravvivenza. In conseguenza della cessione totale di poteri al sovrano, le scelte della volontà di quest’ultimo si pongono come unico fondamento del giusto, dell’ingiusto e della volontà religiosa. Naturalmente, anche il sovrano dovrà rispettare pur sempre i principi del diritto naturale.
La concezione di (—) può essere considerata una rigorosa teorizzazione dell’assolutismo politico. Il contratto hobbesiano, infatti, si caratterizza per il fatto che esso vincola esclusivamente i sudditi tra loro a mostrare obbedienza al sovrano e non anche quest’ultimo nei confronti dei propri sottoposti. Ciò significa che il sovrano, non avendo partecipato al contratto e avendo conservato il diritto naturale su tutto, non ha limiti di sorta: il diritto in tal modo viene ad identificarsi sic et simpliciter nella legge positiva, che è la manifestazione dell’insindacabile volontà del sovrano (volontarismo giuridico). La norma giuridica, in cui si incarna la volontà sovrana, vincola tutti i consociati per il solo fatto di essere razionale, in quanto è espressione dell’inalienabile diritto naturale dell’uomo alla sopravvivenza e alla sicurezza.
Il sistema politico non viene più ricavato in maniera naturale dall’ordine divino, ma deve essere creato e legittimato in maniera consapevole da una decisione razionale degli individui. Inoltre, proprio questo ordine razionale, una volta creato, diventa completamente autonomo e contiene all’interno del proprio meccanismo formale le regole della sua riproduzione. In quanto espressione della volontà di colui che comanda, le leggi devono essere interpretate dall’autorità del sovrano e gli interpreti, dunque, saranno unicamente coloro che egli deciderà di nominare.
Nella teorizzazione politica di (—) sono visibili anche i germi di una visione liberale e ciò è facilmente riscontrabile analizzando le sue riflessioni in materia di diritto penale. Infatti, un’azione è criminosa e penalmente sanzionabile non in quanto intrinsecamente malvagia o condannata dalla morale religiosa, ma perché viene a violare una precisa norma dello Stato che la vieta e la punisce. Da ciò deriva, conseguentemente, che il cittadino ha la piena libertà di fare tutto quello che non è vietato dalla norma positiva. Secondo la prospettiva garantistica dei rapporti tra Stato e consociati, di tradizione tipicamente liberale, la libertà dunque coincide col silenzio della legge. Logiche implicazioni di una tale concezione sono quelle secondo cui il sovrano, assicurata ai consociati la pace e la tranquillità, non debba imporre ad essi leggi superflue o inutili e che, inoltre, debba provvedere a pubblicare le leggi in modo espresso, al fine di rendere inequivocabilmente palese la propria volontà.