Giudizio
Giudizio
Termine che nel suo significato più generale indica sia la facoltà propria di tutti gli esseri animati di valutare la realtà da ogni punto di vista possibile (morale, logico, storico, giuridico, politico ecc) e di operare delle scelte, sia il prodotto stesso dell’attività giudicatrice (l’espressione linguistica) con cui tra due o più concetti si stabilisce un rapporto predicativo.
Aristotele nel Dell’interpretazione fornì una definizione di (—) accolta poi dalla successiva tradizione di pensiero e dal linguaggio corrente. Secondo il filosofo greco, la capacità di giudicare era un attributo dell’intelletto supportato dalla sensazione.
Per Cicerone il (—) coincideva con la dialettica degli stoici, intesa come l’arte di discernere il vero dal falso.
Nel medioevo l’attività giudicatrice venne generalmente intesa come la facoltà dell’intelletto di accettare come vera o di rifiutare come falsa una proposizione.
Nel pensiero moderno, a partire da Cartesio, il termine (—) fu prevalentemente usato per indicare ogni attività di sintesi operata dall’intelletto ed espressa in proposizioni.
In particolare Kant in Critica della ragion pura, denominò ‘giudizio determinantÈ l’attività sintetica esercitata dall’intelletto per conferire valore concettuale (ossia universale e necessario) ai contenuti dell’intuizione. La dottrina di Kant influenzò tutto il pensiero filosofico del XIX sec.
Prendendo spunto dal concetto kantiano, Hegel individuò nel (—) l’attività in base alla quale il particolare e l’universale sono distinti e contemporaneamente unificati.
Alla fine dell’Ottocento si profilò nell’ambito della logica filosofica una reazione alla concezione di (—) come attività intellettiva. E. Husserl (1859-1938), in particolare, distinse l’atto del giudizio (il giudicare) dal contenuto oggettivo del giudizio stesso (il giudizio formulato). Sia l’atto del giudizio, sia il giudizio formulato sono per Husserl frutto dell’esperienza vissuta.
J. Dewey (1859-1952) indicò il (—) col termine sentence. Secondo il filosofo americano, così come in un procedimento giudiziario anche nella logica i criteri di un (—) variano in funzione degli oggetti da sistemare. Egli in particolare distinse un giudizio intermedio o procedurale (cd. proposizione) dal giudizio conclusivo, entrambi frutto dell’esperienza.
Termine che nel suo significato più generale indica sia la facoltà propria di tutti gli esseri animati di valutare la realtà da ogni punto di vista possibile (morale, logico, storico, giuridico, politico ecc) e di operare delle scelte, sia il prodotto stesso dell’attività giudicatrice (l’espressione linguistica) con cui tra due o più concetti si stabilisce un rapporto predicativo.
Aristotele nel Dell’interpretazione fornì una definizione di (—) accolta poi dalla successiva tradizione di pensiero e dal linguaggio corrente. Secondo il filosofo greco, la capacità di giudicare era un attributo dell’intelletto supportato dalla sensazione.
Per Cicerone il (—) coincideva con la dialettica degli stoici, intesa come l’arte di discernere il vero dal falso.
Nel medioevo l’attività giudicatrice venne generalmente intesa come la facoltà dell’intelletto di accettare come vera o di rifiutare come falsa una proposizione.
Nel pensiero moderno, a partire da Cartesio, il termine (—) fu prevalentemente usato per indicare ogni attività di sintesi operata dall’intelletto ed espressa in proposizioni.
In particolare Kant in Critica della ragion pura, denominò ‘giudizio determinantÈ l’attività sintetica esercitata dall’intelletto per conferire valore concettuale (ossia universale e necessario) ai contenuti dell’intuizione. La dottrina di Kant influenzò tutto il pensiero filosofico del XIX sec.
Prendendo spunto dal concetto kantiano, Hegel individuò nel (—) l’attività in base alla quale il particolare e l’universale sono distinti e contemporaneamente unificati.
Alla fine dell’Ottocento si profilò nell’ambito della logica filosofica una reazione alla concezione di (—) come attività intellettiva. E. Husserl (1859-1938), in particolare, distinse l’atto del giudizio (il giudicare) dal contenuto oggettivo del giudizio stesso (il giudizio formulato). Sia l’atto del giudizio, sia il giudizio formulato sono per Husserl frutto dell’esperienza vissuta.
J. Dewey (1859-1952) indicò il (—) col termine sentence. Secondo il filosofo americano, così come in un procedimento giudiziario anche nella logica i criteri di un (—) variano in funzione degli oggetti da sistemare. Egli in particolare distinse un giudizio intermedio o procedurale (cd. proposizione) dal giudizio conclusivo, entrambi frutto dell’esperienza.