Etica

Etica (gr. ethos, costume)

È la filosofia della pratica, ossia la riflessione sul comportamento dell’uomo e sui valori [vedi Valore] che orientano le sue scelte.
Il termine (—) fu introdotto nel linguaggio filosofico da Aristotele e viene generalmente usato come sinonimo di morale.
Nel IV sec. a.C. Democrito definì «morale» il comportamento equilibrato dell’individuo che, assecondando le proprie inclinazioni, non cede né all’ambizione né, all’opposto, all’inerzia.
Nel V sec. i sofisti, nel loro «relativismo etico» sostennero che il bene può essere insegnato, dal momento che consiste essenzialmente in un complesso di regole tecniche per ottenere successo, ricchezza e fortuna in società. L’etica, dunque, non si compone di valori certi e assoluti ma mutevoli e funzionali al raggiungimento di posizioni vantaggiose nella pólis.
Al relativismo etico dei sofisti si oppose l’intellettualismo etico di Socrate, secondo cui ciascun individuo rinviene il criterio di ciò che è giusto nel «demone-buono» tipico della natura umana. Secondo Socrate il male non è mai commesso volontariamente, poiché chi conosce il bene inevitabilmente lo attua.
Per Platone, l’(—) indica i comportamenti conformi all’«idea del Bene». Guardando alle idee, l’uomo ragionevole può riconoscere il giusto e l’ingiusto e formulare sicuri giudizi morali. Il sommo bene per l’uomo è la pura contemplazione delle idee, senza ulteriori fini pratici.
Aristotele
fondò l’(—) sulla natura, ossia sulle facoltà e disposizioni che l’uomo possiede naturalmente.
Poiché la più alta facoltà dell’essere umano è il pensiero, il massimo bene (e, quindi, la felicità) consiste nell’esercizio del pensiero.
Per gli stoici la virtù è «vivere secondo ragione», ossia assecondando la favilla divina che è nella natura umana e che organizza in un ordine razionale l’universo. Tutto ciò che esiste è bene e per apprenderlo il saggio deve esercitare la ragione. Dall’esercizio della ragione discendono tutte le virtù.
L’etica epicurea identificò il bene con la felicità, con il piacere duraturo. Il piacere è il criterio, dunque, per scegliere cosa fare e cosa non fare. Il piacere più alto è l’assenza di turbamento (atarassia).
Secondo Agostino, la natura originariamente buona dell’uomo è insidiata dal peccato originale, per cui la via del bene è possibile solo per grazia divina.
Tommaso d’Aquino riprende la concezione aristotelica e riconduce la morale alla natura, concepita come complesso di facoltà che l’uomo deve esercitare razionalmente.
L’età moderna fu caratterizzata dall’emergere della problematica relativa al rapporto tra legge (o diritto) di natura e leggi positive [vedi Diritto positivo]. Ad esempio, per Grozio la legge di natura è al di sopra del diritto positivo e serve come criterio per valutare quest’ultimo. Per Hobbes la legge di natura è l’impulso all’autoconservazione e condiziona tutti i comportamenti dell’individuo. Hobbes identificò il bene con ciò che dà piacere, consentendo all’uomo di conservare e accrescere la propria salute e sicurezza.
I valori etici sono dunque stabiliti convenzionalmente dagli individui al fine di contemperare il diverso bene di più persone. In quanto fissati dagli uomini, tali valori sono da questi ultimi conosciuti: l’(—) è per Hobbes, quindi, un sapere certo, al pari della politica e della matematica.
Locke
sostenne la tesi di una «morale naturale», secondo la quale gli uomini perseguono il bene comune attraverso azioni che l’esperienza culturale e sociale ha sperimentato come piacevoli e vantaggiose.
Hume
presentò l’(—) come uno sviluppo del «senso morale», ossia dell’istintiva propensione di ciascuno alla benevolenza e «simpatia» verso gli altri.
Rousseau
, in sintonia con la tradizione aristotelica, rinvia l’(—) alla natura, laddove afferma che la natura dell’uomo è buona nello stato di natura mentre inizia a corrompersi nello stato sociale.
Secondo Kant l’uomo realizza un comportamento «morale» quando, ubbidendo alla propria ragione, conforma l’intenzione all’imperativo categorico e quindi controlla le proprie passioni e i propri desideri.
Fichte
, col suo idealismo etico, affermò che lo scopo morale dell’uomo è conquistare la propria libertà. Nello Stato egli individuò il bene supremo (sul piano oggettivo) nello sviluppo dello spirito.
Anche per Hegel lo Stato è la compiutezza della totalità etica, il luogo in cui diritto, moralità ed eticità sono in rapporto tra loro. Nel diritto (privato) l’adesione alle norme è estrinseca; nella moralità l’uomo conforma la propria condotta a principi imposti dall’esterno (ad es. dalla religione); nella eticità l’uomo riconosce la coincidenza tra la propria volontà e quella delle leggi dello Stato.
A differenza di Hegel, Marx ed Engels affermarono che la vera sostanza dell’eticità non è lo Stato, bensì un intreccio di rapporti (soprattutto economici) che si costituisce nella società. Introducendo il concetto di ideologia, il marxismo aprì la strada alla demolizione del concetto di morale: in quanto strumento dell’ideologia, i valori morali assunti da individui e gruppi come criteri-guida delle proprie scelte non sono altro che l’espressione di rapporti di potere è quindi privi di validità incondizionata.
Su questa scia, Nietzsche ricondusse le principali nozioni dell’etica (giusto/ingiusto, buono/cattivo) a rapporti di forza, presenti non solo all’interno della società ma anche all’interno di ogni individuo, ridotto dalla cultura occidentale e dalla morale cristiana ad un campo di battaglia tra impulsi tra loro conflittuali. L’errore della cultura occidentale è stato, secondo Nietzsche, quello di avere alimentato negli individui assurdi sensi di colpa, per reprimere la loro gioia, le emozioni, le passioni, la «potenza vitale originaria».
H. Bergson (1859-1941) distinse tra una «morale aperta», frutto dello slancio di coloro che intendono rompere gli equilibri tradizionali e crearne nuovi, dalla «morale chiusa», volta a mantenere i rapporti consolidati.
La neocriticista scuola di Baden formulò la filosofia dei valori [vedi Valore]. Nel pensiero etico degli ultimi decenni, tuttavia, l’(—) ha assunto sempre più le caratteristiche di una dottrina del dialogo sociale, in cui si assiste alla continua creazione e demifisticazione di quelle regole e di quei valori assunti di volta in volta a guida delle scelte di singoli e di gruppi comportamentali.