Diritto [concetto di]
Diritto [concetto di]
È l’insieme delle tesi fondamentali (epistemologiche, etiche e politiche) primitivamente e spesso implicitamente assunte in ciascun approccio al diritto.
La definizione del (—) è stata spesso considerata un problema centrale della filosofia del diritto, e la chiave di volta per la comprensione dei fenomeni giuridici.
Oggi, tuttavia, soprattutto da parte dei giuspositivisti [vedi Giuspositivismo] contemporanei si tende a considerare inutile o addirittura fuorviante parlare di un (—), dal momento che per essi il diritto e lo studio del diritto positivo sono individuati da norme giuridiche positive e non da concetti filosofici.
Ad ogni modo, giungere alla definizione del (—) vuol dire innanzitutto individuare i caratteri essenziali del diritto o almeno quelli che lo differenziano da fenomeni affini, quali la morale e gli usi sociali.
La filosofia analitica contemporanea ha affrontato con metodo sistematico e innovativo il problema dei concetti e delle definizioni in ogni campo del pensiero, giungendo alla conclusione che un «concetto» non è altro che il significato o i diversi significati assunti da un termine e che la «definizione» non è altro che la scelta tra i diversi significati possibili.
Alla luce di tale concezione, dunque, la ricerca del (—) si traduce nella individuazione del significato che il termine «diritto» assume nel linguaggio comune. Ebbene, nella nostra tradizione culturale la parola «diritto» è stata prevalentemente e comunemente utilizzata per indicare tutti quei casi di applicazione della coazione organizzata, sistematica e dotata di sufficiente effettività.
Tale significato comune e minimale del termine «diritto», senz’altro applicabile agli ordinamenti statali contemporanei in situazioni di pace sociale e politica, ha illuso i ricercatori di definizioni a ritenere che il diritto fosse un quid di oggettivo e preesistente alla ricerca stessa delle definizioni.
Tuttavia, tale definizione minimalistica del (—) è stata accolta da pochi filosofi del diritto. La maggior parte di loro, infatti, nel definire il (—) preferisce dichiarare preliminarmente:
— le scelte di metodo (come, cioè, ritiene si debba parlare di diritto);
— gli aspetti generali del diritto che devono essere evidenziati e descritti (teoria);
— gli aspetti del diritto da sottoporre a valutazione (scelte etico-politiche);
— come valutare gli aspetti del diritto evidenziati.
Quasi tutte le maggiori correnti della contemporanea filosofia del diritto hanno proposto una propria definizione di (—). Naturalmente proporre una definizione anziché un’altra presuppone determinate scelte diverse di metodo, teoriche ed etico-politiche.
Ad esempio, i giuspositivisti [vedi Giuspositivismo] definiscono il (—) come diritto positivo. Essi ritengono che la descrizione dei fenomeni giuridici (istituti, norme, sentenze ecc.) debba prescindere da una loro valutazione e si disinteressano del problema dell’obbedienza o meno dovuta al diritto.
I giusnaturalisti [vedi Giusnaturalismo] invece, considerano (—) solo il diritto giusto, sia positivo (cd. diritto naturale) sia non positivo. Per tali filosofi la giustizia è una qualità intrinseca del diritto, al quale si deve assoluta obbedienza.
I sostenitori del normativismo in senso metodologico, come ad es. H. Kelsen, considerano non soltanto il diritto composto esclusivamente di norme ma ritengono che esso vada descritto con un metodo speciale, come un mondo del «dover essere».
A tale metodologia si contrappone quella dei sostenitori del realismo giuridico metodologico i quali, considerando il (—) un fatto empirico affidano ad una scienza empirica del diritto il compito di descriverlo.
Nel mondo occidentale contemporaneo, organizzato sul modello di Stato di diritto, il fenomeno giuridico dell’interpretazione è quello su cui maggiormente divergono le più correnti definizioni di diritto. Relativamente a tale problema, gli stessi criteri forniti dall’ordinamento (individuato in base al senso comune) si rivelano spesso insufficienti.
Nei punti più incerti e deboli del concetto comune di diritto, allora, anche il giurista positivo più saldamente ancorato al dato positivo e meno incline a speculazioni filosofiche non potrà fare a meno di operare scelte filosofiche (ossia riguardanti la definizione di diritto).
Questa operazione richiederà, dunque:
— la scelta di un concetto di senso comune di diritto (allo scopo di delimitare almeno l’area del giuridico);
— l’accettazione di criteri di autodefinizione dei diritti positivi (ordinamenti giuridici) che in base ai criteri di senso comune si siano eventualmente trovati nelle diverse società.
In tal modo al concetto di senso comune si sovrapporranno (sostituendosi) i criteri positivi degli ordinamenti giuridici.
È l’insieme delle tesi fondamentali (epistemologiche, etiche e politiche) primitivamente e spesso implicitamente assunte in ciascun approccio al diritto.
La definizione del (—) è stata spesso considerata un problema centrale della filosofia del diritto, e la chiave di volta per la comprensione dei fenomeni giuridici.
Oggi, tuttavia, soprattutto da parte dei giuspositivisti [vedi Giuspositivismo] contemporanei si tende a considerare inutile o addirittura fuorviante parlare di un (—), dal momento che per essi il diritto e lo studio del diritto positivo sono individuati da norme giuridiche positive e non da concetti filosofici.
Ad ogni modo, giungere alla definizione del (—) vuol dire innanzitutto individuare i caratteri essenziali del diritto o almeno quelli che lo differenziano da fenomeni affini, quali la morale e gli usi sociali.
La filosofia analitica contemporanea ha affrontato con metodo sistematico e innovativo il problema dei concetti e delle definizioni in ogni campo del pensiero, giungendo alla conclusione che un «concetto» non è altro che il significato o i diversi significati assunti da un termine e che la «definizione» non è altro che la scelta tra i diversi significati possibili.
Alla luce di tale concezione, dunque, la ricerca del (—) si traduce nella individuazione del significato che il termine «diritto» assume nel linguaggio comune. Ebbene, nella nostra tradizione culturale la parola «diritto» è stata prevalentemente e comunemente utilizzata per indicare tutti quei casi di applicazione della coazione organizzata, sistematica e dotata di sufficiente effettività.
Tale significato comune e minimale del termine «diritto», senz’altro applicabile agli ordinamenti statali contemporanei in situazioni di pace sociale e politica, ha illuso i ricercatori di definizioni a ritenere che il diritto fosse un quid di oggettivo e preesistente alla ricerca stessa delle definizioni.
Tuttavia, tale definizione minimalistica del (—) è stata accolta da pochi filosofi del diritto. La maggior parte di loro, infatti, nel definire il (—) preferisce dichiarare preliminarmente:
— le scelte di metodo (come, cioè, ritiene si debba parlare di diritto);
— gli aspetti generali del diritto che devono essere evidenziati e descritti (teoria);
— gli aspetti del diritto da sottoporre a valutazione (scelte etico-politiche);
— come valutare gli aspetti del diritto evidenziati.
Quasi tutte le maggiori correnti della contemporanea filosofia del diritto hanno proposto una propria definizione di (—). Naturalmente proporre una definizione anziché un’altra presuppone determinate scelte diverse di metodo, teoriche ed etico-politiche.
Ad esempio, i giuspositivisti [vedi Giuspositivismo] definiscono il (—) come diritto positivo. Essi ritengono che la descrizione dei fenomeni giuridici (istituti, norme, sentenze ecc.) debba prescindere da una loro valutazione e si disinteressano del problema dell’obbedienza o meno dovuta al diritto.
I giusnaturalisti [vedi Giusnaturalismo] invece, considerano (—) solo il diritto giusto, sia positivo (cd. diritto naturale) sia non positivo. Per tali filosofi la giustizia è una qualità intrinseca del diritto, al quale si deve assoluta obbedienza.
I sostenitori del normativismo in senso metodologico, come ad es. H. Kelsen, considerano non soltanto il diritto composto esclusivamente di norme ma ritengono che esso vada descritto con un metodo speciale, come un mondo del «dover essere».
A tale metodologia si contrappone quella dei sostenitori del realismo giuridico metodologico i quali, considerando il (—) un fatto empirico affidano ad una scienza empirica del diritto il compito di descriverlo.
Nel mondo occidentale contemporaneo, organizzato sul modello di Stato di diritto, il fenomeno giuridico dell’interpretazione è quello su cui maggiormente divergono le più correnti definizioni di diritto. Relativamente a tale problema, gli stessi criteri forniti dall’ordinamento (individuato in base al senso comune) si rivelano spesso insufficienti.
Nei punti più incerti e deboli del concetto comune di diritto, allora, anche il giurista positivo più saldamente ancorato al dato positivo e meno incline a speculazioni filosofiche non potrà fare a meno di operare scelte filosofiche (ossia riguardanti la definizione di diritto).
Questa operazione richiederà, dunque:
— la scelta di un concetto di senso comune di diritto (allo scopo di delimitare almeno l’area del giuridico);
— l’accettazione di criteri di autodefinizione dei diritti positivi (ordinamenti giuridici) che in base ai criteri di senso comune si siano eventualmente trovati nelle diverse società.
In tal modo al concetto di senso comune si sovrapporranno (sostituendosi) i criteri positivi degli ordinamenti giuridici.