Classe sociale
Classe sociale
Categoria di appartenenza di un dato gruppo, la quale si delinea all’interno di un sistema sociale stratificato. Generalmente la (—) comprende l’insieme degli individui che tra loro sono accomunati dall’identità delle mansioni svolte, dal medesimo status economico e dallo stesso livello di potere e prestigio goduti.
A differenza delle «caste» che sono chiuse e non percorribili, le classi sociali sono sistemi aperti, in quanto sono caratterizzate dalla cd. «mobilità verticale», nel senso che consentono il passaggio dall’una all’altra.
Le classi sociali si differenziano anche dai ceti, che sono gruppi più omogenei, in quanto i membri condividono tra loro anche modelli di vita, di azione e culturali.
La nozione di (—) si affermò nelle scienze sociali tra la fine del Settecento ed i primi anni dell’Ottocento.
L’inglese A. Smith (1723-1790) in Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) si fece portavoce delle aspirazioni della borghesia che, all’epoca della rivoluzione industriale fu la maggiore artefice delle attività economiche. Smith distinse i cittadini in classi sociali, a seconda che percepissero redditi, rendite e profitti ed individuò la causa della differenza tra le classi dominanti e quelle subalterne nella diversa importanza dei rispettivi ruoli lavorativi, tutti funzionali all’equilibrio e al progresso economico di una nazione.
Contemporaneamente all’ascesa della classe borghese si venne delineando dalle classi popolari (cioè dei piccoli commercianti, degli artigiani e dei contadini) la classe operaia, composta da coloro che vendendo la propria «forza lavoro» traggono i mezzi di sussistenza sotto forma di salario.
Hegel sottolineò la ineliminabilità, nella storia dell’uomo, della contrapposizione dialettica tra signoria e servitù e Saint-Simon (1760-1825) accarezzò l’idea di una collaborazione tra tutte le classi «operose» (borghesi e popolari).
Marx, invece, negò qualsiasi possibilità di collaborazione interclassista. Egli riteneva che la formazione delle classi fosse determinata dalla posizione assunta nei rapporti di produzione. In un regime capitalistico la produzione si basa sulla separazione tra mezzi di produzione (di proprietà privata del capitalista) e lavoro necessario a rendere operativi i mezzi stessi. In un tale regime, l’operaio per vivere mette a disposizione del capitalista la propria forza-lavoro ed a sua volta il capitalista si assicura un profitto sottraendo all’operaio una quota di lavoro non retribuito.
Tale situazione di inferiorità e di sfruttamento del proletariato da parte del capitalista non si limita, secondo Marx, alla sola sfera produttiva ma si estende a tutta la sfera sociale: l’inferiorità nella produzione, infatti, si traduce in redditi inferiori e quindi in inferiori potenzialità nei consumi, nell’istruzione e nella partecipazione politica.
M. Weber (1864-1920) in Economia e società (postuma, 1922) distinse le classi sociali non in base alla posizione economica ma in base agli status (stile di vita, prestigio, vocazione capitalistica, onore). Secondo Weber, in una società capitalistica anche un individuo privo di grandi ricchezze ma dotato ad esempio di una spiccata «vocazione» imprenditoriale può godere di maggiore considerazione rispetto ad un individuo ricco ma inetto.
Le considerazioni di Weber sono state portate alle estreme conseguenze da numerosi sociologi contemporanei. Ad esempio, l’americano T. Parsons (1902-1979) ha negato l’esistenza di classi rigidamente distinte, sostenendo che le differenze sociali sono pienamente legittime perché originate dalle diverse capacità degli individui di contribuire al benessere economico dello Stato.
Attualmente, le società più avanzate continuano a conoscere differenze e conflitti di classe tra datori di lavoro e lavoratori salariati.
Le differenze, tuttavia, sono basate sempre meno sul prestigio e sempre più sulla difficile reperibilità della professione sul mercato del lavoro. I continui mutamenti nel processo tecnologico e della produzione generano inoltre una costante espulsione di manodopera, che finisce con l’incrementare una classe di emarginati, serbatoio di attività precarie e malremunerate.
Categoria di appartenenza di un dato gruppo, la quale si delinea all’interno di un sistema sociale stratificato. Generalmente la (—) comprende l’insieme degli individui che tra loro sono accomunati dall’identità delle mansioni svolte, dal medesimo status economico e dallo stesso livello di potere e prestigio goduti.
A differenza delle «caste» che sono chiuse e non percorribili, le classi sociali sono sistemi aperti, in quanto sono caratterizzate dalla cd. «mobilità verticale», nel senso che consentono il passaggio dall’una all’altra.
Le classi sociali si differenziano anche dai ceti, che sono gruppi più omogenei, in quanto i membri condividono tra loro anche modelli di vita, di azione e culturali.
La nozione di (—) si affermò nelle scienze sociali tra la fine del Settecento ed i primi anni dell’Ottocento.
L’inglese A. Smith (1723-1790) in Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) si fece portavoce delle aspirazioni della borghesia che, all’epoca della rivoluzione industriale fu la maggiore artefice delle attività economiche. Smith distinse i cittadini in classi sociali, a seconda che percepissero redditi, rendite e profitti ed individuò la causa della differenza tra le classi dominanti e quelle subalterne nella diversa importanza dei rispettivi ruoli lavorativi, tutti funzionali all’equilibrio e al progresso economico di una nazione.
Contemporaneamente all’ascesa della classe borghese si venne delineando dalle classi popolari (cioè dei piccoli commercianti, degli artigiani e dei contadini) la classe operaia, composta da coloro che vendendo la propria «forza lavoro» traggono i mezzi di sussistenza sotto forma di salario.
Hegel sottolineò la ineliminabilità, nella storia dell’uomo, della contrapposizione dialettica tra signoria e servitù e Saint-Simon (1760-1825) accarezzò l’idea di una collaborazione tra tutte le classi «operose» (borghesi e popolari).
Marx, invece, negò qualsiasi possibilità di collaborazione interclassista. Egli riteneva che la formazione delle classi fosse determinata dalla posizione assunta nei rapporti di produzione. In un regime capitalistico la produzione si basa sulla separazione tra mezzi di produzione (di proprietà privata del capitalista) e lavoro necessario a rendere operativi i mezzi stessi. In un tale regime, l’operaio per vivere mette a disposizione del capitalista la propria forza-lavoro ed a sua volta il capitalista si assicura un profitto sottraendo all’operaio una quota di lavoro non retribuito.
Tale situazione di inferiorità e di sfruttamento del proletariato da parte del capitalista non si limita, secondo Marx, alla sola sfera produttiva ma si estende a tutta la sfera sociale: l’inferiorità nella produzione, infatti, si traduce in redditi inferiori e quindi in inferiori potenzialità nei consumi, nell’istruzione e nella partecipazione politica.
M. Weber (1864-1920) in Economia e società (postuma, 1922) distinse le classi sociali non in base alla posizione economica ma in base agli status (stile di vita, prestigio, vocazione capitalistica, onore). Secondo Weber, in una società capitalistica anche un individuo privo di grandi ricchezze ma dotato ad esempio di una spiccata «vocazione» imprenditoriale può godere di maggiore considerazione rispetto ad un individuo ricco ma inetto.
Le considerazioni di Weber sono state portate alle estreme conseguenze da numerosi sociologi contemporanei. Ad esempio, l’americano T. Parsons (1902-1979) ha negato l’esistenza di classi rigidamente distinte, sostenendo che le differenze sociali sono pienamente legittime perché originate dalle diverse capacità degli individui di contribuire al benessere economico dello Stato.
Attualmente, le società più avanzate continuano a conoscere differenze e conflitti di classe tra datori di lavoro e lavoratori salariati.
Le differenze, tuttavia, sono basate sempre meno sul prestigio e sempre più sulla difficile reperibilità della professione sul mercato del lavoro. I continui mutamenti nel processo tecnologico e della produzione generano inoltre una costante espulsione di manodopera, che finisce con l’incrementare una classe di emarginati, serbatoio di attività precarie e malremunerate.