Bene comune

Bene comune

È il fine a cui, secondo un’antica tradizione, deve tendere il diritto . Il concetto è usato da Platone e Aristotele; in particolare, per quest’ultimo ogni atto umano deve tendere al (—).
Nel medio evo Tommaso d’Aquino porrà il (—) al centro della sua concezione filosofica della legge: il potere legislativo deriva ai governanti da Dio, ma non direttamente, bensì attraverso il consenso del popolo. Il rapporto che lega gli individui allo Stato è analogo a quello che lega le parti al tutto. Nello Stato, il cui fine primario è la realizzazione del (—), gli individui rinvengono il mezzo per partecipare ad un superiore grado di perfezione.
Successivamente e per lungo tempo l’espressione (—) ha conosciuto alterne fortune, riemergendo nel pensiero degli utilitaristi [vedi Utilitarismo] e nel linguaggio politico contemporaneo.
La definizione di (—) è problematica, poiché la realizzazione concreta di esso presuppone inevitabilmente dei sacrifici individuali. Poiché la ricerca assoluta del (—) potrebbe costituire una minaccia per il bene individuale, il problema principale appare quello di conciliare il (—) con l’interesse del singolo e di delimitare i reciproci ambiti di applicazione: il diritto deve prendere in considerazione il valore della persona, ma se una società apporta dei vantaggi ad un certo numero di persone, imponendo sacrifici a particolari gruppi, non si potrà parlare di (—), anche se coloro che detengono il potere saranno indotti a proporlo come tale.
Si potrebbe pertanto configurare un’idea minima di (—), comprendente l’imposizione di ciò che è necessario nell’interesse di tutti. Tuttavia, questa definizione appare viziata dalla difficoltà di stabilire il minimo.
Un’altra strada potrebbe consistere nell’individuare il (—) nella risoluzione degli interessi divergenti, ma anche in questo caso occorrerebbe individuare gli interessi da contemperare.
Una concezione massima di (—) presuppone un’idea dell’uomo come insieme di essenza irrazionale e razionale. La razionalità dominante nell’uomo induce quest’ultimo ad abbandonare gli egoismi tipici della propria animalità, a donare agli altri qualcosa di sé e ad agire con questi al fine di realizzare scopi che al singolo sarebbero impossibili. La partecipazione dell’uomo a questo progetto comune realizzerebbe al tempo stesso il bene individuale e quello comune.
A tale concezione si obietta che una sintesi perfetta tra irrazionalità e razionalità è sconosciuta alla natura dell’uomo: l’eccessivo ‘donarsi’ di un uomo agli altri inevitabilmente incentiverebbe quello sfruttamento che il diritto deve appunto impedire. Spetta dunque al potere, al comando della legge impedire che i ‘buoni’ siano vittime dei ‘cattivi’ e ricercare il compromesso migliore tra i sacrifici individuali. La ricerca del (—) non sarà quindi il frutto della buona volontà del singolo ma l’obiettivo che tutti perseguiranno o perché minacciati in caso di devianza o perché conformi o perché convinti.
In definitiva, il (—) consisterà nella ricerca da parte del legislatore di un equilibrio volto a rendere attivamente partecipi gli individui alla vita sociale, chiedendo a questi nulla più di quanto essi siano disposti a dare senza sentirsi sacrificati all’interesse altrui.